Impatti del modello stakeholder value. Business Roundtable, un’associazione di grandi aziende americane, approva lo scorso agosto 2019, un documento che pone gli interessi di clienti, dipendenti, fornitori e comunità sullo stesso piano di quello degli azionisti.
Si tratta del ribaltamento, dalla logica degli shareholdera quella dello stakeholder value, che già Arie De Geus nel suo The Living Company(Harvard Business School, 1997) auspicava alla fine degli anni Novanta, sul quale anche Marco Vigorelli aveva iniziato a riflettere in due diversi brain tank– “L’Europa dopo l’Unione Monetaria: scenari strategici a confronto” (23 novembre 1998) e “The brain company: sfide e cambiamenti per l’azienda di successo” (29 giugno 1999) – da cui è nata la pubblicazione La strategia competitiva per l’Europa. Il valore della conoscenza (Franco Angeli, 2000).Deirisultati di tale cambiamento si può trovare evidenza sui piani strategici, ma anche sugli indicatori di performances, ad esempio le retribuzioni variabili dei manager, che finalmente, forse, potranno essere valutati non solo sui risultati economici, ma anche sulla capacità di far crescere le proprie risorse.
Abbiamo chiesto ad Alberto Vigorelli, Amministratore Delegato di Fire Group e membro del CDA della Fondazione Marco Vigorelli, di commentare questo documento alla luce della sua particolare esperienza professionale. Di seguito riportiamo l’intervista.
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FMV: Che cosa cambia dal 1997 ad oggi con questo documento?
AV: Nel 1999, quando feci la tesi su questo argomento, la commissione mi guardòassai stupita ed incuriosita da una visione assolutamente contro tendenza. Oggi è cambiata la sensibilità del mercato, la crisi appena passata ci ha fatto rendere conto che per avere delle aziende che vivono e prosperano nel tempo bisogna sempre tenere in considerazione le 5 forze (ndr. azionisti, comunità, clientela, dipendenti, partner di business) e lavorare perché nessuna di queste predomini sulle altre. Se ci si focalizza (o si guarda) solo ed esclusivamente al ritorno per gli azionisti, si rischia, in momenti di crisi, di depauperare il valore dell’azienda. Guardare solo al breve periodo e attuare strategie volte a tagliare i costi in maniera più o meno ordinata, può innescare un loop negativo di perdita di competenze e capacità produttive. Le aziende sane sono quelle che sono riuscite a elaborare business model che creano valore, con un forte impegno da parte di tutte le forze coinvolte nel sia nel processo produttivo e commerciale che nell’equilibrio economico-finanziario, e che hanno così raggiunto un livello di solidità finanziaria, economica e di capitale umano che ha permesso loro di superare la crisi che ha caratterizzato l’Italia per più di 5 anni.
FMV: Con questo cambio di prospettiva non si rischiano temi di incompatibilità fra i diversi portatori di interesse o disequilibri tra gli interessi dei vari stakeholder in campo?
AV: Il cambio di paradigma è proprio questo. L’esclusivo avvicinamento degli obiettivi del management agli azionisti, che guardano, per le aziende quotate, ai conti trimestrali, fa sì che l’azienda possa essere distratta dagli obiettivi di lungo termine. Se invece si allineassero gli interessi del management a quelli degli stakeholder, e quindi alla vita dell’azienda, gli obiettivi di medio lungo termine prevarrebbero su quelli del breve.
I risultati trimestrali servono come verifica della rotta definita in un piano industriale triennale.
Ogni 3 anni è bene fare un piano industriale che definisce le priorità delle varie iniziative e focalizzi le forze nel realizzarle. Resta inteso che le iniziative dovranno essere individuate, e quindi le priorità definite, in linea con la capacità dell’azienda di realizzarle all’interno del mercato competitivo in cui si trova.
Oramai è prassi nelle grandi aziende che gli incentivi variabili del top management traguardino l’anno per essere diluiti nei 3-5 anni successivi, sia per un tema di retentionsia per un tema di visione a lungo termine
FMV: Quale potrebbe essere l’impatto sociale di questo cambiamento?
AV: Nella mia esperienza, quello che ho notato è che una base di lavoratori contenti di appartenere all’azienda e di fare il proprio mestiere, rende la quotidianità più positiva e motiva l’approccio collaborativo. Sapere che l’azienda si prende cura delle proprie risorse offre un senso di protezione, trasmette serenità sul posto di lavoro. Le tensioni, le preoccupazioni che le persone hanno al di fuori del lavoro si riducono e questo “togliere un peso” libera energie da dedicare al proprio lavoro. Basti pensare agli asili all’interno delle aziende, al welfare che permette di ottimizzare la fiscalità di stipendi medio-bassi, agli eventi che gratificano dal punto di vista emotivo le proprie risorse. Tutto questo favivere l’azienda non come un’entità astratta, grazie alla quale ci si guadagna “semplicemente” il pane quotidiano, ma come un’entità facente parte della propria vita quotidiana e che fa dire: “Sono fiero di essere parte di questa azienda, che non solo pensa al profitto (cosa buona e giusta), ma pensa a me come lavoratore e a me come persona”.