Alla ricerca della pienezza della vita nel tempo del lavoro

Alberto Peretti è filosofo del lavoro, formatore, ricercatore e counselor filosofico. Come docente e consulente si è occupato di questioni di etica del lavoro, dell’impresa e di riconciliazione di lavoro e vita. Ha fondato la società di consulenza Genius Faber e dirige la Scuola di Spiritualità Attiva. FMV lo ha intervistato a partire dal suo ultimo libro Il lavoro vivente. Dare vita al lavoro, mettere al lavoro la vita (Guerini Next, 2024). Di seguito riportiamo l’intervista.

La frase con cui apre il suo libro è Io non vivo per lavorare, lavoro per vivere! Da dove nasce il desiderio di pubblicare queste pagine?

Questa frase la uso in modo ironico ovviamente, perché a mio avviso è sintomatica di un grande abbaglio: vedere ancora il lavoro come uno strumento al servizio della vita e non come occasione di vita dall’intrinseco valore.

La grande rivoluzione che propongo da molti anni, che si è concretizzata ora in questo libro, è di rompere con una visione del lavoro strumentale al vivere. Oggi si tratta di ripercorrere 2500 anni di visione distorta e riportare il lavoro a dimensione di vita, interpretarlo come qualcosa che ha lo stesso valore esistenziale di tutti gli altri momenti della nostra vita: la famiglia, il gioco, il volontariato…

Il lavoro è un momento di vita! Non si tratta più di lavorare per vivere, ma mentre si lavora di vivere, di andare alla ricerca della pienezza della vita nel corso delle dinamiche di lavoro.

Non tutta la vita è lavoro (per esempio allevare un figlio o vivere con la famiglia…), ma il lavoro deve sempre avere il carattere della vita, perché appunto non è strumentale al vivere, ma è dimensione di vita.

Al lavoro serve quindi una riflessione antropologica, filosofica, spirituale che vada ad “animare” le riflessioni economiche, sociologiche, giuridiche. La produttività va messa al servizio della vita, ma per produrre vita bisogna rompere con il vicolo cieco del lavoro inteso secondo la razionalità strumentale. L’antica distinzione tra poiesis e praxis, tra fare e vivere, è erronea, perché i due piani vanno virtuosamente confusi. Questa è la rivoluzione antropologica, filosofica e culturale che deve accompagnare il cambiamento verso una transizione autenticamente ecologica, un’economia sostenibile e circolare. È tempo di rileggere il significato del lavoro inserendo tale riflessione nella più ampia questione dei rapporti dell’uomo con se stesso, gli altri, il mondo.

Teoria e prassi unite dunque: ma come metterle insieme concretamente nella formazione dei giovani?

Innanzitutto, liberiamoci dall’idea dei giovani che “si preparano al mondo del lavoro”. Il mondo del lavoro è il mondo della vita!

Bisogna cominciare a chiedere a se stessi, ai propri colleghi, alle imprese, di produrre buona vita, vita degna di essere vissuta. Che cosa intendo per Vita?

Incontro la vita quando ho la possibilità di trasformarmi e metamorfizzarmi, di trasformare e metamorfizzare la realtà; quando sono messo nelle condizioni di entrare in relazione con me stesso e con gli altri; di emanciparmi e di liberarmi da schemi, condizionamenti e meccanismi sclerotici; quando posso armonizzarmi con me stesso, con gli altri, con il mondo, dando coerenza alla mia vita e alle mie relazioni.

Propongo quindi ai giovani di perseguire un ideale di vita TREA (Trasformazione, Relazione, Emancipazione, Armonizzazione), cioè di passare dalla transizione alla treansizione. I giovani, seppur inconsapevolmente, lo stanno già facendo: basti pensare al fenomeno delle grandi dimissioni e del quiet quitting. Sono tentativi spesso maldestri, che però hanno come minimo comun denominatore il sacrosanto desiderio di ritrovare nelle dinamiche di lavoro le dinamiche della vita.

Il mondo oggi è profondamente cambiato; sta svanendo la figura del lavoratore che come è accaduto per secoli si limita a cercare nel lavoro i mezzi per procacciarsi di che vivere. Il lavoratore chiede vita. Molte organizzazioni lo stanno capendo, altre purtroppo non ancora. Quello che sappiamo con certezza è che la leva economica non è più l’unica per essere attrattivi e per trattenere talenti. La soluzione? Innestare dosi sempre più forti di vita nelle dinamiche organizzative. Il primo passo per farlo è chiedersi: qual è il progetto antropologico e filosofico di un’impresa responsabile? Verso cosa siamo responsabili? Lo dico chiaro: come persone e come imprese siamo responsabili verso la Vita, in tutte le sue forme e manifestazioni.

Ogni impresa deve sentire che innanzitutto produce vita. Il problema è che molte imprese sono abiotiche, producono pessima vita. Non possiamo più accettare imprese indifferenti al rispetto della vita. Non possiamo più permettercelo, per rispetto verso gli esseri umani e verso il mondo.

Nelle nostre attività parliamo spesso di ri-conciliazione e di armonizzazione famiglia-lavoro. Ci spiega meglio che cosa intende Lei per armonizzazione e come è possibile mantenere le identità di entrambi gli ambiti nel corso delle dinamiche di lavoro?

Chiariamoci: armonizzazione non significa omologazione. Armonia è permettere una coerenza tra le parti, costruire sistemi dove la parte è al servizio del tutto e dove il tutto è sempre al servizio della parte. In questo gioco virtuoso di reciprocità costante dobbiamo trovare una chiave di volta che non è solo economica, ma anche politica.

Oggi le imprese, ne siano consapevoli o meno, fanno “politica”: con le loro regole e i loro processi produttivi scelgono di aderire o meno a principi di rispetto verso la vita. Richiamare la funzione politica dell’imprenditore e dei lavoratori è la grande rivoluzione.

Ha mai pensato di misurare i vantaggi, in termini di benessere del dipendente e dell’azienda, che questo modello, già attuato in alcune realtà, può generare?

Abbiamo in progetto con alcune imprese che nomino anche nel libro di affiancare al bilancio economico e al bilancio di sostenibilità un bilancio vita. Cioè misurare la presenza della vita nelle logiche manageriali e nei processi di lavoro. In questo progetto sto recuperando un tema a cui avevo lavorato tanti anni fa – con Martha Nussbaum e Amartya Sen – sul tema delle capabilities e dell’eudaimonia, cioè creare ambienti di lavoro retti da un principio di fioritura e pienezza dell’essere umano attraverso il riconoscimento e lo sviluppo di “capacità” fondamentali. Un progetto che spero nel 2025 cominci a mettere radici in alcune aziende.

Nel suo libro raccoglie diversi casi in cui si realizza già quello che lei cerca di “teorizzare”. Ci sono Spa diventate Bcorp, Srl, compartecipate, casi che vanno da circa 40 a 13.000 dipendenti. Il suo modello può essere applicato a tutti i tipi di azienda? Come portarlo avanti nelle piccole come nelle grandi?

Il modello TREA si può applicare ovunque l’umano si manifesti: a una famiglia, a una comunità di lavoro, addirittura a una nazione…

Lavoro da molti anni con piccole e medie aziende, ma anche con aziende come A2A e con gruppi bancari come IntesaSanpaolo. È chiaro che si tratta di tenere conto di scale diverse, ma i principi TREA e il triangolo della Vita (Fare bene-Stare bene-Fare il bene) possono diventare un modello applicabile ovunque, indipendentemente della grandezza dell’organizzazione.

In che modo, nel suo lavoro, è riuscito finora a mettere la vita?

Sono un filosofo che ha cercato di portare il pensiero filosofico nel mondo delle imprese. Un tentativo che in passato ha incontrato diffidenze o incomprensioni. Le cose per fortuna negli ultimi anni sono radicalmente cambiate. L’interesse di imprese e imprenditori è esponenzialmente cresciuto.

Per quanto mi riguarda ritengo che un filosofo, oltre a elaborare idee, le deve mettere alla prova della vita, soprattutto la propria. Deve esserci una coerenza di fondo tra le idee e la loro traduzione in scelte di vita personale. Da molti anni, e spero che chi mi conosce non mi smentisca, il tentativo di avere l’orizzonte TREA nelle mie dinamiche di lavoro, ma anche di vita, mi accompagna costantemente. Pochi giorni fa in un’azienda parlavo esattamente di questo. Alla fine della giornata di formazione ho proposto ai partecipanti l’esercizio che faccio spesso al termine di una mia giornata di lavoro. Mi pongo una serie di domande. Quanto questa giornata mi ha trasformato? Quanto un qualche elemento della mia vita ha subito una metamorfosi? Quanto è stata una giornata di contatti, relazioni, comunicazioni, dialoghi interiori e con gli altri? Quanto sono riuscito ad emanciparmi rispetto a idee sclerotiche e meccanismi arrugginiti, liberando con creatività le mie potenzialità? Quanto mi sono sentito più coerente, armonizzato o integrato nella vita? Quanto all’opposto mi sono sentito identico, isolato, replica di me stesso, scoordinato dalla vita?

Spero di aver eletto queste domande radicali, forse ancor prima di teorizzarle, a metro del mio agire consulenziale e della mia vita personale.