Corporate Governance

Approfondimenti sulle tematiche trattate in Corporate governance. Odissea nel valore

La postfazione di Marco Vigorelli al volume Corporate Governance. Odissea nel valore fornisce vari spunti di approfondimento. Segnaliamo qui alcuni possibili percorsi tematici.

Il dibattito sul finalismo aziendale

Qual è lo scopo principale dell’attività imprenditoriale? Cosa costituisce, in altri termini, la finalità dell’impresa? Questa domanda ha suscitato un notevole dibattito teorico difficilmente esauribile in poche righe ma a cui qui si vuole fare breve cenno, se non altro per le conseguenze che ha avuto ed ha rispetto alle modalità del “fare affari”, alla cultura gestionale e alla determinazione di una specifica visione antropologica. La riflessione circa la funzione che l’imprenditore e l’impresa svolgono all’interno dell’economia di mercato e – più in generale – della società ha delineato, in alcuni autori, una sorta di passaggio dal problema della produzione della ricchezza a quello sua distribuzione.

In Capitalismo e libertà Friedman afferma che «esiste una sola responsabilità sociale per l’impresa, ossia utilizzare le proprie risorse e dedicarsi ad attività miranti ad aumentare i profitti, a patto che così facendo rispetti le regole del gioco, vale a dire operi in un regime di concorrenza libera e aperta senza inganni e senza frode». «Quando proclamano che le aziende non pensano solo ai profitti, ma anche a favorire i più auspicabili fini sociali, o che il mondo degli affari ha una coscienza sociale e considera seriamente la responsabilità di offrire posti di lavoro, di eliminare la discriminazione, di evitare di inquinare o di perseguire una qualsiasi delle mode del momento in voga tra i riformatori, gli imprenditori – secondo Friedman – credono davvero di difendere la libera impresa (…) ma non fanno che proclamare (…) il socialismo più puro e semplice».

Queste affermazioni possono essere inquadrate all’interno della teoria economica classica, in cui il cui protagonista è l’homo economicus razionale e la finalità dell’impresa è la massimizzazione del profitto. Sempre nella stessa logica, non vi sono regolatori esterni che impediscono le ormai note distorsioni del mercato, il principio è quello del laissez faire.

Alcuni fattori, come l’evoluzione del contesto storico ed economico, l’emergere di nuovi scenari di competitività su vasta scala, la ricerca di una c.d. “terza via”, hanno consentito al dibattito sul finalismo aziendale di soffermarsi su altri aspetti. Così il personalismo metodologico appare come «l’approccio con il quale si giudicano le multiformi istituzioni sociali a partire dalla convinzione in ordine all’unicità e all’intersoggettività – o reciprocità – della persona umana, che consente di considerare l’individuo nel momento in cui agisce con gli altri». Ad agire all’interno del sistema sociale così come di quello economico è la persona, inscindibilmente legata agli altri. Dal porre al centro del sistema la persona e non più il razionale homo economicus discendono una serie di conseguenze pratiche. Assumendo la natura sociale dell’impresa Michael Novak concettualizza l’esistenza di responsabilità interne o morali della stessa: soddisfare i clienti con beni e servizi realmente validi,  realizzare un ragionevole reddito dai capitali affidati all’impresa dagli investitori, creare nuova ricchezza e posti di lavoro, etc.

Negli anni Ottanta assistiamo alla produzione di una serie di contributi teorici maggiormente calati nella realtà d’impresa. Ciò è avvenuto soprattutto ad opera di tre distinti contributi: lo sviluppo della stakeholder theory da parte di Freeman – teoria cui Vigorelli fa più volte riferimento – gli studi di business ethics di Frederick, e quelli sulla corporate social performance di Carroll.

In modo particolare, i soggetti specifici a cui l’azione dell’impresa responsabile deve indirizzarsi vengono individuati dalla teoria degli stakeholder attraverso la postulazione che «ciascun gruppo di portatori di interesse non deve essere usato come mezzo orientato a un fine, ma partecipare a definire l’indirizzo generale dell’azienda. Il fine dell’impresa è dunque quello di coordinare gli interessi degli stakeholder, e in un certo senso essa si configura come un insieme di relazioni tra gruppi che hanno un interesse per le sue attività».

Evoluzione della nozione di valore e integrazione sociale dell’impresa 

Marco Vigorelli sottolinea l’inadeguatezza della redditività quale metro unico della creazione di valore da parte di un’impresa: «Il valore non è rappresentato soltanto dalla redditività finanziaria conseguibile nel breve periodo, ma anche dal contributo fornito all’impresa da tutti i suoi stakeholder. (…) Garantire all’impresa la possibilità di generare flussi di valore crescenti costituisce l’unico obiettivo che tutti i fattori produttivi e quelli extraproduttivi (i clienti, l’ambiente, la comunità) possono condividere, superando i conflitti che emergono in sede di distribuzione. (…) È importante sottolineare che non si tratta di esplicitare soltanto quanto valore è stato creato, avendo cura di misurarlo sia in termini di utili, sia in termini di capitalizzazione di Borsa. Occorre anche dire come il valore  è stato generato: con quale rischio, con quali risorse. Quanto capitale proprio, quanto debito. Quale knoledge capital e con quale livello di competenza: anche da ciò si può capire che cosa saprà fare l’impresa in futuro».

Si può forse dire che il profitto è sì parte del concetto di “valore” (quale metro dell’efficienza economica aziendale e quale responsabilità nei confronti della proprietà), ma che anche la realizzazione di altri obiettivi – economici e non – che rispondono a un’efficienza in qualche modo sociale fa parte del processo di creazione del valore. Questi ultimi obiettivi sono configurabili come responsabilità dell’impresa nei confronti dei propri stakeholder. «L’assunzione di comportamenti socialmente responsabili permette al sistema aziendale di operare nel pieno rispetto e consenso dell’ambiente, condizione questa necessaria per salvaguardare, in primis, i risultati economici raggiunti, e necessaria per porre le basi del processo di successivo sviluppo. Accogliendo questa tesi, ne consegue che l’impresa dovrebbe integrare il sistema dei propri fini con quelli degli altri attori, garantendo al contempo un circuito informativo in grado di comunicare adeguatamente tali integrazioni e le scelte che ne conseguono». Vogliamo qui porre l’accento sul fatto che il profitto non è un fine in sé ma è anche una risorsa da reinvestire (redistribuzione del valore creato) per garantire il funzionamento dell’impresa nel lungo periodo: si tratta di un reinvestimento di capitale tangibile e intangibile volto a migliorare la competitività dell’impresa e la sua capacità di rispondere in modo adeguato alle aspettative degli interlocutori sociali (i quali non sono portatori di interessi di carattere esclusivamente economico). Più nel dettaglio possiamo affermare che in una concezione in cui il valore equivale al reddito, la redistribuzione sociale della ricchezza creata avviene mediante varie politiche: la politica dei dividendi, la politica dei salari, la politica dei prezzi. Tali politiche sono politiche di breve termine, riguardano appunto la redistribuzione del reddito. Il valore, contrariamente al profitto, è invece un obiettivo di lungo termine. Se l’impresa vuole accrescere il proprio valore «gli investimenti dovranno essere quantificati e selezionati in base al contributo degli stessi al raggiungimento di tale scopo».

In una prospettiva in cui appare chiaro come l’impresa si relazioni con la società, infatti, si può dire che tale relazione si configura anche come scambio di reciproci flussi di valore, tanto da poter parlare di integrazione sociale dell’impresa. Tale integrazione si estrinsecherebbe nella percezione della responsabilità sociale quale modalità di creazione del valore compatibile con le attese degli interlocutori sociali.

In modo particolare l’interdipendenza tra impresa e ambiente può essere descritta in tre passaggi:

1) Le imprese utilizzano risorse economiche, sociali ed ambientali prelevate dal sistema competitivo per svolgere la propria attività;

2) Le medesime imprese restituiscono valore economico, sociale e ambientale al sistema competitivo;

3) In modo circolare, le imprese prelevano nuovamente risorse dal sistema competitivo e – se hanno restituito in precedenza valore sociale, ambientale ed economico superiore rispetto a quello prelevato – otterranno dei benefici reintroducendo tali nuove risorse nel proprio processo produttivo.

La “catena del valore sociale” appena descritta in tre punti mostra come la crescita dell’impresa possa avvenire solo in sinergia con la crescita della società, reciprocamente alimentandosi: «attraverso la scomposizione della catena del valore sociale, l’impresa ricerca e sviluppa quegli investimenti che, realizzando importanti benefici per la collettività, consentono di accrescere, contemporaneamente, il proprio vantaggio competitivo e le proprie performance».

Caput- brain. La fonte della ricchezza delle nazioni è nelle persone 

Se, come questo libro ci ha ampiamente illustrato, la banca verrà nei prossimi anni ingaggiata da inediti schemi competitivi, la risorsa capace di dominare il cambiamento sarà invece il brain. Se la decomposizione della catena del valore conseguente all’ingresso di nuovi competitors extrabancari e alla virtualizzazione della società esigerà di escogitare nuove soluzioni di servizio e di gestione, l’unica risorsa in grado di assolvere a questo compito saranno i talenti e le competenze dello human capital.

In questo scorcio di fine millennio, la novità e la profondità dei cambiamenti in atto nei mercati e nella società richiedono una vera e propria rifondazione del ruolo dell’uomo nell’impresa.

Solo l’uomo, infatti, sa escogitare soluzioni a problemi, metabolizzando le informazioni, strutturandole e selezionandole in modo da interpretare e rispondere alle domande emergenti della società virtualizzata e del mercato globale. Solo un uomo completo – capace di ideare, ma anche di eseguire e contestualizzare le proprie azioni nell’orizzonte di un’etica condivisa – potrà dominare quei cambiamenti che da più parti si stanno annunciando.

E solo un’impresa che sappia pensarsi come comunità di individui, “essere vivente” immerso nella più vasta comunità dei suoi stakeholder può riconoscere nell’obiettivo di auto perpetuarsi un compito naturale e una missione capace di superare e di armonizzare i conflitti particolari e gli effetti perversi delle logiche di breve periodo.