Il mondo della finanza, per propria natura, guarda al futuro e nel medio-lungo termine i rischi socio – ambientali sono una parte rilevante da gestire. Osservando il mercato, infatti, si possono già trarre alcune indicazioni: ad esempio, gli asset immobiliari di alcune zone esposte all’impatto negativo del cambiamento climatico si deprezzano rapidamente, indicando il rischio percepito dagli investitori.
Sviluppo della finanza sostenibile e sue criticità attuali
La finanza sostenibile nasce per mitigare questi rischi e, possibilmente, per orientare i capitali verso progetti di investimento che migliorano la società e l’ambiente. Per come la conosciamo oggi, essa nasce innanzitutto per soddisfare delle istanze di giustizia sociale, come quelle rivendicate sul finire degli anni ’70 da numerosi investitori che decisero di boicottare il regime di segregazione razziale vigente in Sud Africa. Successivamente, i primi report dell’IPCC (International Panel of Climate Change) evidenziarono anche i rischi derivanti dall’impatto sull’ambiente dell’attività umana: la E di Environment si affiancò alla S dei diritti. La commissione Brutland nel 1987 elaborò per prima l’acrononimo ESG nel report “Our Common Future”. Da quel momento, la finanza sostenibile è cresciuta in maniera lenta ma costante fino al 2015, quando con l’introduzione dei Sustainable and Development Goals delle Nazioni Unite, congiuntamente alle crisi climatiche sempre più evidenti e alle crisi finanziarie da eccessi speculativi, è esplosa fino a raggiungere la cifra di 35 mila miliardi di US $ come attivi finanziari etichettati come “sustainable”.
Gli standard ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) sono comunemente accettati e rappresentano una valutazione dell’impegno di una impresa ad operare secondo principi di massimizzazione del valore senza trascurare l’impatto socio – ambientale nel suo agire. Gli investitori oggi sono sempre più attenti ad investire in imprese che operino secondo questi standard. In particolare, i criteri ambientali considerano le prestazioni dell’impresa in termini di minimizzazione dell’impatto ambientale; i criteri sociali esaminano le relazioni dell’impresa con i dipendenti, i fornitori, i clienti e le comunità dove operano; la governance considera, tra l’altro, le modalità di selezione delle leadership che garantiscano pari opportunità, l’equa remunerazione del management, l’adeguatezza dei sistemi di controllo interno e la tutela dei diritti degli azionisti di minoranza.
La finanza sostenibile, però, non è finanza etica, non nasce da un obbligo morale ad adottare un comportamento virtuoso, ma è figlia della consapevolezza che nel medio – lungo termine la creazione di valore si ha soltanto se si è in grado di produrre rendimenti nel rispetto dei criteri ESG. Senza questa visione, un investimento è esposto a rischi fatali. Ecco perché le grandi agenzie di rating tradizionale, come Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch Group, esaminano la sostenibilità dell’emittente non soltanto dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista ESG: un business non sta in piedi se non produce flussi di cassa adeguati a sostenere il debito contratto, ma non regge neppure se non controlla i rischi socio – ambientali a cui è esposto.
Fin qui, le motivazioni e i pregi legati alla finanza sostenibile sono evidenti. Però, la sua crescita impetuosa, da pochi miliardi di dollari a 35 mila miliardi di dollari in poco tempo, presenta delle ombre che è bene esaminare. La domanda che ci si pone è se dietro tale crescita non si nascondano anche degli opportunismi.
Alcuni studi evidenziano come 1/3 degli investimenti definiti come sostenibili genera un impatto ambientale positivo e misurabile, in particolare rispetto all’accordo di Parigi circa il contenimento dell’incremento delle temperature a +1,5°. La parte restante, rappresentata da fondi generici, cioè prodotti finanziari con generica indicazione ESG, non genera impatti ambientali positivi. L’etichetta ESG senza una effettiva produzione di impatto lascia aperti gli interrogativi circa il green washing e / o social washing.
Abbiamo, comunque, anche prodotti di finanza tematica (ad esempio, fondi o obbligazioni verdi o sociali), con certificazioni eseguite da terzi sulla capacità di produrre impatti. Gli investitori sono confusi e ancora troppi di essi non riescono a discernere chi offre strategie sostenibili da chi si spaccia per tale. Occorrerebbe una regolamentazione. L’Unione Europea rappresenta la punta più avanzata in tal senso, in quanto con il suo Action Plan sta tentando di regolamentare il mercato della finanza sostenibile. Altri grandi regulators, invece, non stanno producendo nulla.
Tuttavia, man mano che il mercato diventa più maturo, la richiesta di maggiore trasparenza nei processi di selezione degli investimenti e di assegnazione dei rating sarà inevitabile e i vari mercati dovranno adeguarvisi. Sarebbe bene, quindi che le autorità di regolamentazione dei mercati collaborassero in modo da identificare degli standard comuni in tema di sostenibilità.
Per ora, tale finanza è ancora poco orientata al commercio al dettaglio (25%), mentre gli investimenti istituzionali ne rappresentano il 75%. Molti di essi aderiscono al PRI (Principal Responsible Investmets) che ora conta circa 3700 investitori istituzionali (Asset manager, Banche Fondi Pensione …). Questi 3700 investitori garantiscono con la loro adesione al PRI che i loro investimenti saranno ispirati ai criteri ESG. Però è un’arma di difesa dai tentativi di opportunismo che dovrebbe essere affiancata da una maggiore attenzione regolamentare.
Altri punti discussi
Per quanto riguarda le Banche che continuano ad investire in combustibili fossili, purché’ ci sia una copertura assicurativa, dobbiamo riconoscere che le Banche non possono dismettere immediatamente i loro obblighi in quanto la finanza sostenibile è a medio/lungo termine e non può applicarsi immediatamente. Nell’Unione Europea, le Banche possono avvalersi del meccanismo denominato Just Transition Mechanism. Si tratta di un meccanismo che assicura che la transizione verso una economia neutrale dal punto di vista climatico accada in un modo equo ed inclusive, non lasciando indietro nessuno: 55 miliardi di Euro sono stati stanziati per i periodo 2021-2027 per le regioni più colpite, in modo da alleviare l’impatto socio-economico della transizione. Le Banche ricevono, quindi i capitali per aiutare le imprese nella fase di transizione dalle istituzioni. Tra gli emittenti di green bond troviamo anche quelli che cartolarizzano le operazioni green … tornando al punto di partenza della crisi finanziaria. Il loro compito deve rimanere quello di adottare il Green Deal Europeo e di aiutare le imprese nella transizione. Si tratta soprattutto di in problema culturale dei bancari che lavorano nelle banche e indirizzano (male) gli investitori / investimenti.
Per quanto riguarda la definizione green e la quantificazione degli impatti, è difficile anche per le imprese avere degli standard atti a misurare l’impatto a livello sociale etc. Non esistono standard omogenei. Ci sono 11 standard a livello internazionale; 6 standard basati solo sulla componente “E” e 4 standard basati solo sulla componente “S”. L’Unione Europea è di nuovo l’unica Organizzazione ad aver fatto il Regolamento “Tassonomia “ e ad aver definito chiaramente cosa significhi E e cosa significhi S.
La Green sulle emissioni e sulla rendicontazione viene certificata da terzi e le imprese, a parte la rendicontazione certificata di cui sopra, devono specificare su quali progetti andranno a confluire, cioè quali sono i progetti “green”. Ad esempio, i BTP green emessi dall’Italia specificano i progetti che saranno finanziati, con i rispettivi valori di CO2 etc.
Alfonso Del Giudice
professore ordinario di Finanza Aziendale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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