Alla tavola rotonda hanno partecipato: Maurizio Parini (moderatore), Anna Amati, Stefania Brancaccio, Giacinto Piero Tartaglia, Antonio Vitale.
«Dobbiamo imparare a cavalcare l’inarrestabile onda distruttrice e creatrice della tecnologia». Questa affermazione di Rich Lesser di sette anni fa è quanto mai vera e sempre più attuale nella auspicata rinascita dopo la pandemia. Evidenzia la pervasività tipica dell’acqua (arriva ovunque) e la convivenza di luci ed ombre: distrugge, crea e trasforma più o meno bene o verso il bene o no. Come mai prima d’ora il genere umano è l’artefice di tutte le trasformazioni in atto: globalizzazione, demografia e tecnologia sono le forze primarie che determinano i cambiamenti.
Un’onda distruttrice e creatrice
L’ultima fase è una storia relativamente recente che inizia industrialmente di fatto negli anni Cinquanta e che ha avuto da subito una progressiva rapida evoluzione con la convergenza ed integrazione tra informatica, comunicazione e tecnologie elettroniche e media (ICT)[1].
Dalla fine degli anni Novanta ad oggi si entra a pieno titolo nella Digital age e siamo immersi e circondati dal cloud computing e dalla rete, con internet e connessioni fisse e mobili, via cavo ed etere sempre più veloci, e con ciò che tutto questo contiene: e-commerce, social, full mobility, individual enterprise, internet of things (IOT), intelligenza artificiale (IA o AI), big data, analytics, automazione, droni, virtualità, realtà aumentata, blockchain, cybersecurity, fino al “tutto smart”, 4.0 e 5G…
Alcuni “macro indicatori” tra i tanti: «Tra le tante la vera rivoluzione è quella dei big data e dell’intelligenza artificiale. La quantità di dati che produciamo raddoppia ogni anno: nel 2018 abbiamo generato tanti dati quanti nell’intera storia dell’umanità fino al 2017 (un numero pari a centinaia di “zettabyte”). Con l’IOT entro 5-7 anni avremo 150 miliardi di sensori connessi in rete, venti volte il numero di persone sulla Terra. Allora la quantità di dati raddoppierà ogni 12 ore. Tutto diventerà più intelligente». Esiste la possibilità di trasformare dati in informazione, informazione in conoscenza e conoscenza in sapere. Già oggi 5.1 miliardi di persone su 7.2 miliardi che popolano il pianeta hanno (almeno) un cellulare[2].
Il tutto porta a più innovazione, più servizi, nuovi modelli di business, nuovi ecosistemi, nuovi processi, nuovi modelli organizzativi, nuove competenze, con una velocità di cambiamento sempre maggiore e con significativi impatti in ogni ambito, sia nel lavoro che nella vita personale. Come detto con luci ed ombre: quali concentrazione, profilazione, disintermediazione, sovraprofitto, grande distanza tra chi compra e chi offre, rapporto diretto e nascita del mercato dei dati immenso ed asimmetrico…
Guardando al mercato Italia “ante pandemia”, l’Assintel Report 2019 prevedeva tra il 2017 ed il 2021 un mercato in crescita e in trasformazione (CAGR nel periodo di +1.3%) di circa 30 miliardi di euro. I rischi non mancano, ma è un’opportunità unica nella storia dell’umanità.
L’Unione Europea, negli ultimi anni, attraverso le proprie istituzioni è stata l’unica entità nel mondo ad evere emesso delle comunicazioni comprensive di molti aspetti relativi al mondo digitale (aspetti tecnologici, economici, legali, sociali, etici…).
«L’Unione Europea (UE), negli ultimi anni, attraverso le proprie istituzioni è stata l’unica entità nel mondo ad evere emesso delle comunicazioni comprensive di molti aspetti relativi al mondo digitale (aspetti tecnologici, economici, legali, sociali, etici… per facilitare lo sviluppo di una economia data-agile). In merito ai Dati, già nel 2013 la Commissione Europea (CE) ha emesso una serie di comunicazioni sull’accesso aperto, trasparente e gratuito a tutte le pubblicazioni scientifiche. Nel 2018, gli Stati Membri dell’UE hanno firmato una Dichiarazione di Cooperazione nel campo dell’Intelligenza Artificiale (IA) e la CE ha pubblicato una Comunicazione su IA, avente tre obiettivi principali:
- incremento della capacità tecnologica e industriale europea incluso investimenti nel campo della ricerca e dell’innovazione e miglioramento dell’accesso ai dati;
- preparazione ai cambiamenti socio-economici causati dalla IA. Operazioni di modernizzazione del sistema educativo e formazione, sviluppo talenti, anticipando i cambiamenti nel mercato del lavoro, sostenendo la transizione del mercato del lavoro e l’adattamento dei sistemi di protezione sociale;
- assicurazione di un adeguato quadro etico e legale, basato sui valori dell’Unione e in linea con la Carta dei Diritti Fondamentali.
Nel 2019, la CE ha pubblicato il rapporto “Linee Guida Etiche per una IA Affidabile”. Secondo il rapporto, IA deve essere: legale, rispettando tutte le leggi e i regolamenti; etica, rispettando i principi e i valori etici; robusta, sia da un punto di vista etico che sociale. Ulteriori pubblicazioni nel 2019 e 2020.
L’uomo però non si limita a ri-progettare il pianeta (o distruggerlo), ma ha già iniziato data la pervasività delle tecnologie a ri-progettare sé stesso. L’interazione e la fusione tra le biotecnologie e le tecnologie digitali indicano la possibilità di creazione di super-uomini attraverso manipolazioni genetiche o utilizzo di robotica e impianti digitali (cyborg) o ricorso a intelligenza artificiale o con varie combinazioni di tutte queste tecnologie. Le macchine future avranno una loro autonomia, saranno in grado di processare algoritmi sempre più complessi, con analisi di milioni di dati per secondo, non solo soppiantando gli umani nelle operazioni più semplici, ma diventando strumenti indispensabili all’umano per il lavoro quotidiano»[3].
Solide basi dunque, ma una enorme quantità di lavoro ancora da fare in Europa e non solo.
Futuro del lavoro
Nella Digital age, dopo la pandemia, il lavoro è stato travolto da uno “tsunami”. Nel corso degli ultimi cinquanta anni molti sono stati gli sforzi su regolamentazione e gestione in ambito legale, contrattualistico, sindacale, sociale. Impossibile non ricordare almeno lo Statuto dei Lavoratori del 1970, la Legge Biagi del 2003 o il Jobs Act del 2014, ed una tendenza ancora in essere alla flessibilità anche contrattualistica. Non si può dimenticare in occasione della Seconda Rivoluzione Industriale (quella dell’introduzione della elettricità, chimica e petrolio), l’esortazione nella Rerum Novarum del 1891 a salvaguardare e perseguire la dignità del lavoro; stesso tema che sembrerebbe ancora attuale e che è di fatto, con altre parole, l’incipit di un appello di oltre 3.000 accademici e ricercatori di più di 650 università nel mondo comparso su 41 testate a metà dello scorso mese di maggio: «Gli essere umani non sono una risorsa tra le altre. Molti dibattiti sono tuttora in corso e profonde sono state e sono le trasformazioni del mercato del lavoro e la sua “destandardizzazione”» (Ulrich Beck)[4].
Solo alcuni macro-indicatori “ante pandemia”, certamente critici:
- il tasso di disoccupazione totale in Italia[5];
- la sperequazione tra retribuzioni minime e medie e quelle dei ruoli apicali di imprese ed istituzioni soprattutto considerando il contributo dei piani incentivi (MBO);
- i cinque nodi del Paese secondo Bankitalia (scarsa crescita dell’economia, dal 2002 e soprattutto dal 2009 molto inferiore alla media UE, Usa, UK e Giappone e nel 2019 non avevamo ancora recuperato il PIL del 2007; difficoltà imprenditoriale (complessità del fare impresa); ritardo della ricerca (sia per numero di ricercatori che per % del PIL); investimenti stagnanti (soprattutto dal 2011); divario nell’istruzione (anni di scolarizzazione media);
- la posizione dell’Italia nell’indice di digitalizzazione (si tratta dell’Indice Desi dell’UE per cui l’Italia è 25esima su 27 paesi;
- la posizione dell’Italia al secondo posto nel settore industriale in Europa dopo la Germania, nonostante una bassa produttività media[6].
Tutto ciò non può che darci confidenza sulle nostre capacita’ di reazione alle sfide e nei momenti più difficili…
Guardando sempre al settore industriale ed agli Stati Uniti si può osservare che nel periodo tra l’inizio degli anni 80 ed il 2010 il numero di lavoratori nel settore manifatturiero è diminuito da circa 18 milioni di persone a 12 milioni mentre l’indice di “Manufacuring Real Output” è passato da 70 a 130 e certamente non per investimenti in IA, ma più probabilmente per effetto della globalizzazione e variabili geopolitiche oltre che in parte per automazione. Altre analisi evidenziano come dal 1955 la Tecnolgia ha consentito all’industria aumenti di produttività ma mantenendo sostanzialmente costante dal 1980 al 2015 il reddito (real incame) della fascia media dei lavoratori e riducendo il bisogno di lavoro umano di routine.
Altre analisi infine mostrano come sempre negli Stati Uniti dal 1895 al al 1970 circa i salari hanno seguito la crescita della produttività diventando poi stagnanti dal dal 70 al 2015 ed in Inghilterra dal 1770 inizio della prima rivoluzione industriale la produttività è cresciuta ma non i salari; dal 1830 con l’introduzione della meccanizzazione, produttività e salari sono andati “di pari passo”[7].
Sembra possibile far crescere di pari passo produttività e salari…
Oggi, guardando avanti e prescindendo dalla pandemia, «si stima che entro un decennio persino il lavoro intellettuale sarà sostituito per il 60 % dalla tecnologia e che metà dei lavori scompariranno. Occorreranno enormi investimenti in cultura e formazione, incentivi alla creatività e nuove forme educative per ricreare un patrimonio di esperienza professionale e riqualificare gli espulsi dal sistema produttivo, un diverso modello sociale basato non solo sulla ridistribuzione della ricchezza ma del lavoro, nuove fonti di conoscenza per generare altro sapere e creare così lavoro con nuovi lavori»[8].
Lavoro del futuro
Tornando all’Italia certamente abbiamo vissuto e viviamo da alcuni decenni un allargarsi della forbice che vede i pochi ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, la classe media assottigliarsi sempre più e le previsioni sugli impatti di digitalizzazione ed IA far scomparire posti di lavoro e ricrearsene più o meno altrettanti. Certamente abbiamo anche vissuto «l’esperienza umana come materia gratuita che viene trasformata in dati comportamentali e poi venduta come prodotti di previsione in un nuovo mercato, quello dei mercati comportamentali a termine, dove operano imprese desiderose di conoscere il nostro comportamento futuro»[9]. O, detto in altri termini, con Stefano Quintarelli: «Esiste un predominio che si fonda su un controllo centralizzato dell’informazione sia in termini di dati che di processi con cui tali dati sono raccolti, elaborati, comunicati ed utilizzati. Ma è il modello opposto a quello con cui internet è nata e si è sviluppata. Ciò porta di fatto lo storico conflitto tra capitale e lavoro a quello attuale tra informazione da un lato e capitale e lavoro dall’altro[10]». Sono solo alcune ombre della digitalizzazione, peraltro ricca di molte luci.
Certamente sempre più flessibilità nella scelta delle modalità contrattuali (a volte di fatto senza protezioni) e del part-time oltre che l’affermarsi della “Gig Economy” e sempre più significativo della percentuale di disoccupazione il numero di ore lavorate ed i relativi “anni uomo equivalenti”.
Dopo la pandemia, cominciano a vedersi prime stime: nel 2020 aumento di disoccupati nel mondo pari a circa 25 milioni, per l’Italia pari a circa 1 milione ed una riduzione del PIL tra l’8 e il 9.5-10% al variare delle fonti. Più recentemente (primi di giugno) si stima in Italia una riduzione di 0.5 milioni di posti di lavoro rispetto ad un anno fa, dei quali 400.000 in marzo/aprile; riduzione del 4.6% dei lavoratori atermine in un mese; 7 milioni di lavoratori in Cassa Integrazione con scadenza a fine giugno per i lavori continuativi.
Le prime indicazioni strategiche da varie fonti per il “new normal” vedono: più digitalizzazione anche a partire dal settore pubblico ed automazione, da remote working per emergenza a smart working mirato; più attenzione al capitale umano, soprattutto nel far crescere i lavoratori; più innovazione, ricorso-creazione di ecosistemi, ridisegno delle supply chain e reshoring, collaborazioni con università, centri di ricerca, partner tecnologici, start up, nuovi business models, un nuovo patto tra le forze produttive e sociali e tra pubblico e privato.
Visioni di futuro a partire dal Covid-19
Ma forse oltre alle previsioni e alle visioni strategiche è interessante avere l’opinione di alcuni operatori significativi che da tempo, e con successo, operano nel mercato in differenti aree e con differenti ruoli.
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Un’imprenditrice nel settore elettromeccanico, Stefania Brancaccio, vice presidente di COELMO S.p.A.
Quando una nuova tecnologia fa la sua apparizione nel mercato provoca un’esplosione di visioni e di entusiastici commenti su come questa possa incidere sul nostro futuro.
Lo vediamo osservando le trasmissioni dei media, gli articoli, i social network, le conferenze e tutto il passaparola che si genera intorno.
Ma dopo l’esplosione iniziale ne deriva sempre una fase di stallo dell’entusiasmo come una sorta di disillusione collettiva in cui l’innovazione raccoglie più dubbi e scetticismo che applausi ed acclamazioni. Chi è invece veramente a contatto con l’innovazione e la ricerca, con lo sviluppo delle tecnologie spesso mantiene posizioni molto più caute, e continua ad investire e a lavorare per conseguire il vero sviluppo dell’innovazione.
L’evoluzione della tecnologia è inarrestabile e il futuro è sempre più innestato nel presente.
Dobbiamo imparare a immaginare le opportunità che la tecnologia porta con sé e creare spirito di grande adattabilità in ogni struttura, funzione e singolo processo.
La tecnologia cambia le logiche delle organizzazioni.
La tecnologia digitale, di fatto, ha modificato il nostro modo di lavorare ma sono ancora pochi coloro che ne hanno tratto il meglio.
L’impatto della tecnologia digitale sul modo in cui le aziende progettano e producono beni, gestiscono le comunicazioni interne e si connettono con i clienti è un argomento vastissimo che è stato e continua a essere ampiamente dibattuto sulle riviste di economia accademiche o divulgative. Mentre la rivoluzione digitale entra nella fase successiva, dobbiamo rispondere a nuove domande sul rapporto tra la tecnologia e la gestione aziendale che puntano al nucleo stesso dell’azienda.
La tecnologia diventa quasi come un nuovo cromosoma che incide sul DNA delle organizzazioni e ne cambia la struttura, modifica l’aspetto e le potenzialità. Ciò richiede nuovi approcci manageriali. Manager capaci di gestire trasformazioni reali sollecitandole in ogni componente dell’azienda e capaci di mettere in discussione le fondamenta stesse del pensiero manageriale.
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Un responsabile delle Risorse Umane, Antonio Vitale, HR, Organizzazione e Responsabilità Sociale in Gruppi ICT
Gli scenari che già venivano prefigurati negli ultimi tre-quattro anni rappresentavano gli effetti che i rapidi mutamenti dei mercati, l’evoluzione demografica e l’innovazione tecnologica avrebbero comportato per il mondo del lavoro e la vita delle persone. Come sicuramente noto le recenti innovazioni della Digital age avrebbero portato a significativi cambiamenti nella cultura delle aziende e della società. Si potrebbe dire: nulla di nuovo sotto il sole. È quello che è sempre accaduto nelle società e nelle economie più evolute, quando un’ondata di cambiamento tecnologico richiede la formazione di nuove competenze e la gestione delle conseguenze economiche e sociali di quelle non più richieste dal nuovo contesto.
Dall’osservatorio di un responsabile delle Risorse Umane in un’azienda di consulenza ICT, questo significava definire un modello di competenze tecniche, metodologiche e sociali adeguato ai ruoli necessari all’organizzazione, costruire un sistema di apprendimento continuo capace di alimentare il modello di competenze e ruoli, sviluppare una cultura della leadership in grado di migliorare il coinvolgimento delle persone e stimolare la crescita e l’innovazione, promuovere nuove modalità di organizzazione del lavoro attraverso l’introduzione progressiva dello smart working e la digitalizzazione di processi, spingere le persone a diventare protagonisti del loro futuro professionale assumendosi la cura in prima persona delle loro competenze, creare un contesto di valori dove fosse apprezzata l’attenzione verso il welfare aziendale ed il work-life balance dei dipendenti e le iniziative di responsabilità sociale di impresa.
Mentre questo processo di trasformazione era in corso è intervenuta drammaticamente l’emergenza Corona Virus, che ha costretto tutti a fare i conti con la necessità di procedere non più dentro un graduale percorso di cambiamento ma a tappe forzate per fronteggiare l’emergenza sanitaria, organizzativa e di mercato.
Nel corso di questi tre mesi dall’inizio dell’emergenza pandemica, analisti e consulenti di organizzazione d’impresa si sono cimentati nel disegnare gli scenari possibili del post Covid, soprattutto alla luce del massiccio ricorso che è stato fatto nelle organizzazioni allo smart working; nello stesso tempo persone, imprenditori e manager, sindacati hanno sperimentato nuove dimensioni organizzative del lavoro ed in particolare quelle da remoto che in definitiva hanno rappresentato l’unica vera risposta rapida ed efficace all’emergenza che le imprese dovevano affrontare. Quali sono dunque le prime conclusioni a cui è possibile arrivare alla luce di questa prima fase di esperienza sul campo, rispetto al possibile futuro assetto del lavoro nelle organizzazioni?
Le imprese ed i loro leader hanno compreso in un tempo rapidissimo che è possibile organizzare il lavoro in maniera diversa rispetto al passato e soprattutto rispetto ai tradizionali criteri di organizzazione-programmazione e controllo; in particolare ridisegnando:
- La dimensione dei costi: basti pensare a quelli delle sedi e delle trasferte o dei sistemi di controllo.
- La dimensione della flessibilità operativa: dal momento che l’organizzazione si sgancia dal fattore di unicità spazio-tempo.
- La dimensione della efficienza-efficacia: dal momento che appaiono evidenti i benefici che una digitalizzazione/robotizzazione dei processi possono portare nell’immediato e non più in una prospettiva di medio periodo, con annessi impatti di sicurezza dei dati.
- La dimensione della leadership: come capacità di coinvolgere e motivare e non soltanto di supervisionare e controllare.
Le persone hanno compreso che il bilanciamento tra lavoro e vita personale può sicuramente trovare beneficio e garanzia nella tecnologia, ma anche che non è possibile rinunciare alle relazioni sociali del lavoro e che la compresenza tra ruoli professionali e ruoli familiari ha bisogno di una evoluzione culturale nel bilanciamento questa volta di genere dei menage familiari. Così come hanno intuito che trasferire la precedente organizzazione del lavoro in remoto rischia di tradursi in una sterile trasposizione di compiti più che in un ridisegno di ruoli e processi.
Gli stessi sindacati, poco attenti al fenomeno dello smart working, visto peraltro con sfavore per il potenziale rischio di disunità della forza lavoro, hanno compreso la sua importanza per la sicurezza e la stabilità del lavoro e si stanno indirizzando a trasformarlo in un diritto regolato dalla contrattazione collettiva. Non più lavoratori esclusivamente considerati come soggetti di diritti, ma persone che riacquistano individualità propositive e responsabilità attive.
È da questi tre processi di apprendimento e di consapevolezza che si determineranno i nuovi equilibri del lavoro e la possibilità che l’innovazione tecnologica oltre e disegnare i nuovi spazi del futuro non produca anche l’ennesima crisi occupazionale con i relativi risvolti di costi umani e di instabilità sociale.
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Un’imprenditrice nel settore dell’innovazione (Anna Amati, fondatrice e VP di META Group)
Una delle leve più efficaci di sviluppo economico e di creazione di benessere è rappresentata dalla capacità di valorizzare la conoscenza generata all’interno delle Università e dei Centri di ricerca, in particolare attraverso la creazione di startup.
La start up è una differente forma di impresa, nasce come le altre, ma si basa e si sviluppa intorno ad una conoscenza (una tecnologia, un Know-how, una soluzione innovativa); nasce guardando ad un mercato globale ed ha l’obiettivo di una rapida crescita.
Questa tipologia di impresa richiede competenze particolari che spesso non sono sviluppate durante il percorso scolastico ed universitario. Il nostro Paese non ha investito nello sviluppo di queste competenze, in generale ha investito sempre molto poco nell’“Education”. Certo i nostri ragazzi sono “istruiti”, apprendono nozioni necessarie per costruirsi un ampio bagaglio culturale. Ma l’“Education” ha una finalità più ambiziosa, ovvero quella di rendere i nostri ragazzi indipendenti e preparati ad affrontare e migliorare il mondo. Dalle scuole primarie in poi la priorità dovrebbe essere quello di abilitare le competenze necessarie per permettere che ciò accada. Insieme all’istruzione, quindi, è necessario sviluppare competenze complementari quali:
- guardare il mondo con un occhio contemporaneo
- essere capaci di risolvere problemi
- parlare le lingue in maniera professionale
- essere curiosi e propositivi
- avere una competenza finanziaria (anche se non si studia economia)
- avere propensione al rischio (vd. stereotipo del posto fisso; questo è l’elemento su cui siamo più indietro)
- essere responsabili e critici rispetto alle grandi sfide del mondo.
Se vogliamo far ripartire l’Italia e vogliamo disegnare una strategia vincente, non solo nell’ambito dei soft skills ma anche nello sviluppo del manifatturiero, queste competenze insieme a quelle informatico-digitali sono necessarie. Oggi non sono facilmente a disposizione, tranne in qualche caso in cui i genitori, più che la scuola, se ne fanno carico.
Le start up – oltre 11.000 riconosciute nel registro delle imprese innovative del MISE, che fatturano in media intorno a 170.000 € ciascuna, garantendo 5-6 posti di lavoro l’una – sono un indispensabile strumento per far fronte alle nuove sfide. I giovani sono “il loro ed il nostro” futuro, educarli a costruirlo nel miglior modo possibile è oggi una nostra responsabilità.
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Un libero professionista (Giacinto Piero Tartaglia, Gestione della conoscenza, Evoluzione tecnologica ed Etica)
La Rivoluzione Industriale ha portato alla creazione di nuovi modelli di società, lasciandosi alle spalle feudalesimo, monarchie e quanto non adatto a gestire metropoli industriali e la natura mutevole dell’economia. Oggi, la situazione si è stabilizzata in gran parte del mondo e ha consentito una accelerazione dell’economia: il liberismo economico è il modello di vita. Le sfide tecnologiche odierne hanno un carattere molto più distruttivo e tale modello economico non sembra essere adatto al futuro.
Il mondo del lavoro dovrà affrontare cambiamenti radicali in quanto l’IA e tutte le altre innovazioni tecnologiche sostituiranno una parte del lavoro umano, con un impatto sul mondo del lavoro diverso secondo i settori e con variazioni tra il breve e il lungo termine. La riorganizzazione del lavoro e l’utilizzo delle tecnologie digitali possono garantire una produttività maggiore.
Lo sviluppo delle tecnologie digitali, in continua accelerazione, amplifica in modo crescente il bisogno di analisi di complessità e richiede competenze di un grado più elevato e in continuo sviluppo. Alla riduzione di posti di lavoro per mansioni meno specialistiche, si affiancheranno altre e diverse opportunità di lavoro. Nuovi ruoli e nuove mansioni saranno necessari in discipline complementari e in ruoli orizzontali; risorse che sappiano valutare il quadro tecnologico- etico-sociale-legislativo e guidare lo sviluppo dei cambiamenti.
Il rischio sarà quello di amplificare i cambiamenti socio-economici e la differenza tra le classi sociali. Nel mondo futuro il potere della classe lavorativa sarà sempre meno rilevante, in quanto i lavoratori saranno sempre meno indispensabili, almeno per la maggior parte delle mansioni. I contratti sociali andranno rivisti e dovranno considerare le disuguaglianze economiche.
In breve, il modello economico su cui è costruito il mondo odierno dovrà essere completamente rivisto. Come evitare la perdita di posti di lavoro; cosa fare se i nuovi posti di lavoro lavori saranno in numero minore di quelli persi? Sarà necessario elargire un sussidio di base a tutti? Occorrerà rallentare la velocità del cambiamento? I genitori saranno pagati per accudire i figli? Gli orari di lavoro saranno ridotti? Quali altri scopi e aspettative saranno messe in gioco per gli esseri umani?
In ogni caso, per consentire alle generazioni future di essere pronte alle esigenze lavorative già del mondo odierno, occorrerà una educazione-formazione appropriata. Nel XXI secolo è stato acquisito il passaggio da “società industriale” a “società basata sulla conoscenza”. La società richiede oggi conoscenza globale e immediata. Non abbiamo bisogno di aggiungere informazioni specifiche a tutte quelle che ci piovono addosso, ma dobbiamo rendere gli allievi di domani pronti a crearsi una loro visione del cosmo in modo che possano prendere decisioni congrue in un mondo mutevole, pieno di informazioni fallaci e super veloce.
L’educazione/formazione dovrà essere completamente rivoluzionata. Dal fornire e acquisire conoscenza si dovrà passare allo sviluppo delle capacità e abilità nell’acquisire queste nuove conoscenze, dalla grande mole di dati e informazioni, orientandosi verso lo sviluppo di Pensiero Critico, Comunicazione, Collaborazione e Creatività: una miscela di attività umanistico-artistiche e scienza, per accrescere le capacità concettuali in grado di guidare i sistemi di collaborazione in una prospettiva creativa (conoscenza condivisa e interattiva). La tradizionale divisione della vita in periodo scolastico e periodo lavorativo sparirà. La gestione del cambiamento continuo (e la durata della vita media estesa) richiederà un processo di apprendimento continuo (life-long learning), lo sviluppo di grande flessibilità mentale e il continuo reinventarsi per l’adattamento a mansioni mutevoli, ai confronti con le macchine dotate di IA, oltre al mantenimento di un sano equilibrio psichico.
L’emergenza che ha fermato il mondo ci ha dato un segnale per ri-definire il futuro, per prendere coscienza di ciò che sta accadendo, invitandoci a riflettere su ciò che è più importante nella vita umana, sulla fragilità dell’ecosistema e quindi a ri-pensare la società, a dare inizio ad una “nuova civiltà” basata sui valori, per riparare quanto distrutto, a partire dai legami morali, sociali, politici e gestire i cambiamenti con sane politiche e visione collettiva. I cambiamenti non sono pre-determinati. Siamo ancora in grado di scrivere il futuro sulla base della nostra visione collettiva e gestire i cambiamenti con opportune politiche, considerando la complessità e la globalità del problema. Il futuro deve essere costruito gestendo la trasformazione per centrarlo sulla figura umana e renderlo etico, sicuro e rispettoso dei nostri valori fondamentali. La trasformazione sociale potrà essere guidata solo attraverso un approccio multi-dimensionale che consideri gli aspetti etici e sociali, legali, educativi e formativi, economici e la resilienza individuale e collettiva Solo uno sforzo congiunto, sinergico, e “globale” dall’individuale al collettivo potrà essere efficace per realizzare una nuova società, centrata sulla figura umana e la sua identità, i valori etici, sociali e gli altri valori fondamentali.
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Un professore universitario (Franco Scarpelli, associato di Diritto del Lavoro, Università di Milano Bicocca)
Per un giuslavorista è sempre difficile inserirsi in queste discussioni, perché la regolazione del lavoro è spesso vissuta come freno ai meccanismi economico e l’impresa, dimenticando che essa (al di là del giudizio di merito sulle singole soluzioni adottate) svolge un fondamentale ruolo di indirizzo dei comportamenti economici, di prevenzione delle loro esternalità negative, di regolazione della concorrenza (orientandola al rispetto di elevati standard valoriali o sociali), di allocazione di costi tra impresa e sistema economico nel suo complesso.
In questo contesto va valutato anche il tema del rapporto tra lavoro e tecnologie, e l’esperienza del diritto dell’emergenza pandemica costituisce per molti versi un interessante laboratorio. In questi mesi l’esplosione del fenomeno dello smart-working – o più correttamente lavoro da remoto (anche se va detto che il legislatore lo ha espressamente collocato nella fattispecie del “lavoro agile” introdotta nell’ordinamento dalla legge 81/2017) – ha mostrato a tutti le grandi e interessanti potenzialità di un possibile riassetto generale dell’organizzazione del lavoro, e sul piano giuridico ha subito posto il tema se si possa pensare lo smart working come diritto, anche al di fuori della fase emergenziale.
È significativo che la legge qualifichi le finalità del lavoro agile non solo in termini di strumento di conciliazione tra lavoro e vita privata, quindi nell’interesse del lavoratore (strumento pur non privo di rischi sociali se non anche culturali, soprattutto per la condizione delle lavoratrici) ma anche in relazione alla competitività del lavoro, dunque nell’interesse del sistema economico.
Tra le varie disposizioni dei decreti emergenziali, ve n’è una che per i genitori di minori infra-quattordicenni qualifica il lavoro agile come vero e proprio diritto soggettivo, a condizione che sia compatibile con la natura della prestazione: già diversi casi, osservati come avvocato, segnalano il tema di come e fino a che punto l’impresa abbia il dovere di adattare l’organizzazione per rendere esigibile quel diritto, dunque il problema del grado di responsabilità sociale che può essere chiesto all’impresa. Da giurista, trovo dunque che uno degli aspetti più significativi del diritto della pandemia sia proprio il fatto di aver messo sul tavolo il tema della responsabilità sociale delle imprese, in un modo più concreto rispetto a quanto fece l’esperienza della c.d. RSI (rivelatasi in molto casi più una operazione di marketing, salvo le significative esperienze di un settore minoritario di imprese culturalmente avanzate), perché declinata sull’accentuazione sul piano giuridico del dovere di solidarietà, in tutti i rapporti contrattuali.
Nel lavoro, se il sistema nel complesso ha tenuto e sta tenendo oltre le aspettative (grazie ad un sistema di welfare che, con tutti i suoi limiti, sta mostrando in questi mesi quanto sia prezioso), ci segnala però diversi temi meritevoli di attenzione e migliore regolazione, che hanno spesso al loro centro vecchie e nuove diseguaglianze: si pensi alla gestione degli orari di lavoro, alla pervasività delle tecnologie e dunque al sempre più incerto confine tra tempi di lavoro e di non lavoro, alle diseguaglianze sofferte dai soggetti più fragili (per alcuni dei quali il confinamento domestico è estremamente problematico) e da molte lavoratrici, infine al tema di come svolgere, in un contesto di emergenza sociale, le relazioni collettive sociali e sindacali.
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Un sindacalista (Luca Barilà, CISL Regione Campania Lavoro e Politiche Attive)
Il contributo del sindacato è condividere e accompagnare le scelte, specie in momenti di difficoltà come questo. Sicuramente ci confronteremo con un mercato del lavoro che ne uscirà cambiato e con modalità di lavoro differenti rispetto alla fase pre-crisi. Il lavoro agile sta dando delle ottime risposte in termini di produttività, nel privato come nelle Pubbliche Amministrazioni, ma superata la crisi non possiamo immaginare che sia la stessa cosa. Per questo bisognerà recuperare la volontarietà di adesione del lavoratore e il ruolo della contrattazione collettiva. A tal fine è auspicabile immaginare, con Ministero del lavoro e delle finanze, un riconoscimento di incentivi per le aziende che regolamentino il lavoro agile sulla base di un accordo collettivo aziendale, stipulato dalle OO.SS comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, per facilitare i cambiamenti organizzativi e gli adeguamenti tecnici.
Non possiamo dimenticare che dietro ogni processo ci sono persone su cui investire prioritariamente con percorsi di qualificazione e riqualificazione anche pervasi da un’ampia visione prospettica (nuove professionalità). C’è bisogno di fare un percorso a monte: per i giovani in ambito di una formazione che si deve integrare (scuola, università, imprese) con la nuova domanda dei mercati del lavoro locali.
Se la tecnologia è indispensabile per la competitività, specie nel confronto con i competitors internazionali, questa può essere l’occasione per sfruttare l’innovazione e rilanciare il made in Italy, in stretta correlazione con la tenuta e/o gli incrementi occupazionali che potranno essere generati.
Il ruolo del sindacato di fronte al cambiamento non può essere quello di affrontare nuovi schemi con concetti passati. Anche noi siamo chiamati a reinventarci sapendo che al centro ci sono sempre le persone e la loro dignità da tutelare come bene primario, “inventando” nuove modalità per intercettare i bisogni di ciascuno. Dobbiamo essere capaci di riscoprire ed andare incontro a tutte quelle periferie del lavoro che incontriamo ogni giorno nella nostra attività: precariato, lavoro sommerso, soggetti espulsi dai cicli produttivi, coloro che per svariate ragioni sono esclusi da quella che Papa Francesco ha definito la “cittadella del lavoro”, all’interno della quale si opera perché vi siano adeguate tutele individuali e collettive.
È a tutte queste realtà che dobbiamo guardare, e verso le quali dobbiamo indirizzare le nostre forze comuni, se vogliamo parlare realmente di dignità delle persone e del lavoro.
Conclusioni
Ma forse la vera opportunità potrebbe essere dopo aver visto i limiti dell’attuale modello di sviluppo, a volte anche l’uso improprio delle nuove tecnologie ed una società sempre più portata ad una competitività senza limiti e ad un individualimo spesso favorito dalla virtualità del “vivere in rete”, muoversi velocemente nel “new normal“ ma imboccando, autorizzati a pensare, sempre in una logica di economia di mercato, la via di una maggior attenzione al bene comune, al non parlare solo di ridistribuzione ma anche ad incidere sui meccanismi di produzione della ricchezza, a nuove forme di misura, leggi, controllo ed a valori che mettano realmente l’Uomo nella sua integralità e con le sue relazioni al centro.
Per una nuova Rinascita.
Ricordandosi sempre, come diceva Michel Sarres, filosofo, scrittore e grande sostenitore del digitale, dell’innovazione e della rete che «È necessario ed urgente pensare nel contempo ad una nuova solitudine ed a una nuova solidarietà».
E consapevoli che «il futuro è aperto e dipende da noi, da noi tutti, da come vediamo il mondo e valutiamo le possibilità di futuro che sono aperte» (Karl Popper).
Maurizio Parini
manager in multinazionali dell’ICT, consulente, fondatore di GMaC onlus
[1] Guardando solo ai fatti più significativi e da tutti vissuti, sono chiave gli anni Settanta o a questi prossimi: lo sbarco sulla luna (1969) e Arpanet, di fatto “madre di internet” e, nella seconda metà, della nascita e poi veloce diffusione del personal computer. Seguono gli anni Ottanta e Novanta con internet, nel 1989 il Word Wide Web, i primi smartphone e la nascita di Amazon e di e-Bay. Una visione di insieme, molto semplificata ma certamente efficace ed indicativa del cambiamento e della sua velocità negli ultimi cinquant’anni, può essere la seguente: 1970, 1 milione di main frame; 1980, 10 milioni mini computer; 1990, 100 milioni di pc; 2000, 1 miliardo di desktop internet; 2010, 10 miliardi di mobile internet; 2020, 50 miliardi di Internet of Things e la popolazione mondiale è passata da 3.7 miliardi nel 1970, a 7 miliardi nel 2010, a 8 miliardi nel 2020.
[2] Cfr. M. Rasetti, Intelligenza Umana vs Intelligenza Artificiale: c’è una competizione in corso?
[3] Si veda, Riflessioni di Giacinto Piero Tartaglia su “Lavoro e tecnologia. Esperienze e implicazioni della pandemia”.
[4] Cfr. Humans are not resources. Coronavirus shows why we must democratise work, The Guardian, 15 maggio 2020.
[5] Cfr. Occupati e disoccupati, Istat, aprile 2020. Il rapporto è sul campione 15-64 anni nel 2019 che è di circa il 10.2%, quello giovanile (15-24 anni) è del 29%. Va ricordato che per essere considerati occupati basta lavorare poche ore alla settimana (nel 2008 prima della crisi il tasso totale era era il 6.8%). Tassi più alti di quelli del nostro paese, in Europa solo quelli di Spagna e Grecia.
[6] L’industria manifatturiera è il maggior contribuente al PIL, all’ Export e alla occupazione. Merito soprattutto di alcuni ormai pochi grandi Gruppi e di circa “4.000 multinazionali tascabili” che hanno superato la crisi del 2009 e sostengono l’attività di molti distretti industriali e dei loro fornitori (Fondazione Aldini Valeriani, marzo 2015). Più recentemente sono stati presentati i risultati delle 1.000 imprese tra 20 e 500 milioni di euro di fatturato selezionate da L’Economia e ItalyPost per la loro capacità di crescere con un tasso medio di crescita composto di almeno il 10% tra il 2011 e il 2017, di guadagnare, di creare valore di rafforzarsi patrimonialmente anno dopo anno; hanno sempre investito e sono sempre state liquide anche durante i periodi di crisi e nonostante il sistema-Paese…
[7] Da M. Rasetti, Big data e sicurezza nazionale.
[8] Mario Rasetti, Il dado è tratto. Big Data e IA tra scienza e società, https://www.asimmetrie.it/il-dato-e-tratto.
[9] Cfr. Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs 2018.
[10] Stefano Quintarelli in Capitalismo immateriale, Bollati Boringhieri 2019.
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