Tra le tante questioni che stanno accendendo il dibattito collegato alla diffusione dell’attuale Smart Working (SW) – un “lavoro agile” del tutto a-tecnico e meglio definibile come “lavoro da remoto forzato” – vi è quella dei costi sostenuti da chi lo pratica. Ci si riferisce, ad esempio, ai costi per la connessione internet, ma anche a quelli delle utenze casalinghe o alla sempre viva questione della corresponsione dei buoni pasto.
Sui primi (la connessione) è interessante notare come, nella disciplina del diverso istituto del telelavoro, l’art. 6, c.3, dell’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004 preveda che «ove il telelavoro venga svolto con regolarità, il datore di lavoro provvede alla compensazione o copertura dei costi direttamente derivanti dal lavoro, in particolare quelli relativi alla comunicazione».
Quanto ai secondi (le utenze) in Italia non ne è ancora stato calcolato l’impatto sulle tasche dei lavoratori. Tuttavia, un’analisi statunitense ha quantificato i consumi di elettricità delle famiglie e delle imprese (ha analizzato il periodo tra aprile e luglio 2020).
Lo studio stima che gli americani abbiano speso 6 Mld$ in più per consumi elettrici nelle abitazioni rispetto allo stesso periodo del 2019. Almeno una buona parte di questi costi, specularmente, corrisponde ad un saving realizzato dalle aziende (non per l’intero ammontare perché occorre considerare che a casa non c’era solo chi lavorava “da remoto”, ma anche chi il lavoro l’aveva perso). I consumi residenziali sarebbero cresciuti del 10% a fronte di una riduzione del 12% di quelli commerciali e del 14% di quelli industriali (l’analisi è contenuta nel paper n. 27937 a cura di Steve Cicala, Powering work from home, NBER – National Bureau of Economic Research).
Infine i buoni pasto, il benefit più diffuso e percepito da più lunga data (in Italia esistono dalla seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso e fino a prima della pandemia se ne avvalevano 2,5 milioni di beneficiari per un giro d’affari di oltre 3 Mld€/anno).
Su questo tema, sia pure con esclusivo riferimento al settore pubblico (ma con qualche non escludibile influsso anche sulle considerazioni che potrebbero fare i datori di lavoro privati), va segnalata la nota n. 77318 del 1.12.2020 del Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri avente ad oggetto un quesito posto da una PA sulla «legittimità della corresponsione dei buoni pasto e del compenso forfettario per consumi energetici e telefonici in regime di lavoro agile». Ad avviso del Dipartimento, mentre sulla questione dei buoni pasto – anche, immaginiamo, alla luce di una precedente sentenza pronunciata sul punto dal Tribunale di Venezia (sent. N. 1069/2020) espressasi in senso negativo rispetto alla loro corresponsione – è stato ribadito quanto già indicato dal Ministero della Funzione Pubblica (Ministro Fabiana Dadone) in una sua precedente circolare (la n. 2 del 1.4.2020) e pertanto che «il personale in smart working non ha un automatico diritto al buono pasto essendo rimesse a ciascuna PA le determinazioni di competenza circa la sussistenza delle condizioni per l’erogazione». Quanto invece al rimborso forfettario delle spese per le utenze relative a energia elettrica e telefonia, «in mancanza di un preciso fondamento normativo o negoziale in grado di sorreggere l’ipotizzato riconoscimento di somme aggiuntive al personale che presta lavoro in modalità agile» un tale riconoscimento, almeno ad oggi, «non risulta praticabile».
Ne consegue che, allo stato (nel settore pubblico), non è possibile procedere alla fissazione di un forfait da elargire per ogni giorno lavorato in SW e pro capite a titolo di rimborso delle spese domestiche. Deve però essere segnalata l’ipotesi – che sarebbe allo studio da parte del Governo ed è spinta dai sindacati – con la quale si vorrebbe riconoscere un “Bonus Smart Working” a copertura delle spese sostenute dal lavoratore (non è chiaro se con riferimento al solo pubblico impiego o con possibile estensione anche al lavoro privato). Tale copertura mirerebbe a compensare anche il mancato riconoscimento degli straordinari (che nel reale SW, forse fatte salve rare eccezioni, non sono neppure ipotizzabili) e l’eventuale perdita dell’erogazione dei buoni pasto.
Se questa è la strada per sostenere lo SW non ci si può esimere dal notare come essa si faccia accidentata: se, infatti, il messaggio che si vuole far passare è che in SW si guadagna di meno i lavoratori lo respingeranno, esattamente come sta avvenendo nel settore pubblico dove coloro che lavorano in remoto non hanno diritto ad alcune voci salariali invece previste se il lavoro è svolto “in presenza”. Emblematico il caso della sede INPS di Bologna dove, per protesta, qualche giorno fa un sindacato ha “minacciato” il ritorno in ufficio da parte dei lavoratori. Come a dire che se nell’old normal la protesta era “andarsene dall’ufficio”, nel new normal sarà “andare in ufficio”. Il mondo sta davvero cambiando!
Contro il riconoscimento di questi costi – si fa notare da parte datoriale – militerebbe la sussistenza degli innegabili risparmi che derivano allo smart worker proprio per il fatto di non doversi recare in azienda con la precedente frequenza (si tratta degli effetti che sostanzialmente riguardano la riduzione dei costi, materiali e immateriali, diretti ed indiretti, del cd. commuting). Ne consegue – dicono le aziende – che la busta-paga dello smart worker indirettamente migliora.
Migliorerebbe così tanto che non è mancato chi ha persino proposto di tassare gli smart worker proprio considerando che i risparmi che questi riuscirebbero a conseguire si trasformerebbero, da un lato, in un minor giro d’affari per una parte dell’economia (trasporti, combustibili, ristorazione) e dall’altra, appunto, in un miglioramento della loro condizione economica che andrebbe, ad avviso dei proponenti, ripartita con le “vittime economiche” della pandemia.
È questa la proposta, avanzata da Deutsche Bank nel mese di novembre 2020, contenuta nello studio “What we must do to rebuild”. La Smart Working Tax si sostanzierebbe nell’applicazione di una tassa del 5% a tutti i lavoratori che continuano a lavorare da remoto, destinando il gettito così ottenuto a favore di chi ha perso o sospeso la sua attività in conseguenza della pandemia o sia stato costretto, per il tipo di attività svolta, a continuare a lavorare in azienda. Questa tassa, sostiene la banca tedesca, consentirebbe di «raccogliere 49 miliardi di euro all’anno negli USA, 20 miliardi di euro in Germania e 7 miliardi di sterline nel Regno Unito», che potrebbero «finanziare sussidi per i lavoratori meno pagati che di solito non possono lavorare da casa». Superfluo aggiungere che la proposta, almeno in Italia, non ha incontrato il favore di nessuno.
Da parte sindacale si è poi eccepito che le aziende, con lo SW, di saving ne fanno anche di più dei lavoratori: basti pensare alla riduzione degli spazi e delle conseguenti spese generali o alle disdette di molte locazioni di sedi diventate adesso troppo grandi rispetto all’occupazione media degli uffici che s’ipotizza di ottenere per il futuro.
Sono state realizzate delle simulazioni circa il quantum ascrivibile alla riduzione dei costi degli spazi e quindi delle spese generali per ogni postazione fisica trasformata in lavoro “smart” (si veda M. Patucchi, Smart Working: l’azienda risparmia 10 mila euro a posto, La Repubblica, 19.9.2020). Per i manager intervistati dall’harvardiano Prof. P. Choudhury (Our work-from-anywhere future, Harvard Business Review, novembre-dicembre, 2020) «The net benefit (…) including the productivity increases and property cost savings (…) equals $ 18.000 a year for each worker». Più contenute le stime elaborate da OECD-LEED (Exploring policy options on teleworking) secondo cui «a typical employer can save approximately USD 11.000 per year for every person who works remotely half of the time».
Se questi conti sono esatti, se ne possono fare facilmente altri e far saltar fuori delle cifre interessanti sulle quali varrebbe la pena interrogarsi. Lo stanno facendo alcuni sindacati che già aspirano a redistribuire questi saving e, quanto al lavoro pubblico, la strada sembra sia ormai tracciata: l’art. 1, comma 870, della legge di bilancio 2021, prevede che i risparmi sui costi per straordinari non pagati e buoni pasto non riconosciuti agli smart worker potranno alimentare, tra l’altro, il “welfare integrativo”, ossia il Welfare Aziendale delle PA (immaginiamo che potranno andare soprattutto ai fondi di previdenza complementare non essendo diffuse prassi di articolazione del welfare in termini flexible come nelle aziende private).
Ma c’è un’altra conseguenza dello SW, foriera di saving per le aziende della quale ancora poco si discute (stavolta è direttamente in gioco il costo del personale) e sulla quale gli smart worker e i sindacati non si sono ancora ben soffermati. È quella che discende dalla capacità del “lavoro agile” di rendere più semplice identificare sacche di inattività e di “scovare” i lavoratori meno performanti (quelli che “in presenza” e nei grandi open-space da esperti free-rider sono capaci di “mimetizzarsi” più facilmente dietro lo schermo del pc).
È evidente che lavorando in maniera isolata rispetto al reparto o al team cui fisicamente partecipava in azienda, lo smart worker poco collaborativo lo si noti immediatamente, dovendo misurare il lavoro sui risultati piuttosto che solo sulla sua durata.
Ha dato prova di avere contezza di questa capacità dello SW il Ministro della Funzione Pubblica responsabile del settore più afflitto dalla ricerca del miglioramento delle performance: il pubblico impiego. Secondo il Ministro Fabiana Dadone una delle “funzioni” dello SW che spiega il particolare impegno profuso per la sua diffusione nelle PA (pur in quadro irto di non poche difficoltà culturali e strutturali tra le quali proprio l’assenza della cultura della performance) è appunto questa: facilita l’identificazione del lavoratore poco produttivo.
Lo SW à la Dadone, infatti, è da un lato un premio per coloro che possono praticarlo (da qui la polemica nata sulla corrispondente e contraria funzione “punitiva” assegnata al rientro in ufficio da disporsi per i lavoratori non troppo “agili”, ossia con una “resa” inferiore alle attese: un ritorno al concetto del lavoro come “pena”) e dall’altro «aiuta a stanare chi lavora poco» (intervista a F. Dadone, Statali, stretta sullo smart working. Chi non rende tornerà in ufficio, La Nazione, 23.12.2020). Questo tema apre poi a quello, molto complesso, del controllo delle performance del “lavoro agile” e qui ci basti dire che il progresso tecnologico dei sistemi di indagine e monitoraggio ha registrato grandi sviluppi (e grandi new business) proprio ed anche in conseguenza della diffusione del lavoro “da remoto” durante la pandemia.
Infine, mentre ragionando a corto termine ciascuna delle parti rivendica il suo «e io pago…», all’orizzonte e sul medio/lungo termine si profila dell’altro. Gli smart worker sono (attualmente) tutelati dalla Legge 81/2017 che impone la parità di trattamento retributivo rispetto al personale che lavora in azienda. Ma con lo sviluppo e soprattutto con il corretto radicamento dello SW, non può non immaginarsi anche una ridefinizione della stessa struttura della retribuzione che terrà conto della finalità del “lavoro agile” che è quella non già di realizzare un maggior benessere per il lavoratore (ciò sarà al più un outcome della rinnovata organizzazione del lavoro), ma di perseguire incrementi della competitività delle imprese e della produttività del lavoro ottenibili sulla base del raggiungimento di target da conseguire mediante un lavoro sempre più responsabilizzato e fiduciariamente svolto con crescenti dosi di discrezionalità operativa (molto più raramente si tratterà di reale autonomia), dove “l’agilità” che conta non è quella (astratta) del lavoro, ma ovviamente quella (concreta) del lavoratore.
Appare evidente che questa impostazione, la sola che insieme ad altri specifici presupposti possa far parlare di reale SW, è destinata a modificare la subordinazione e lo stesso sinallagma contrattuale nel quale la retribuzione non è più unicamente il corrispettivo del tempo necessario ad eseguire la prestazione. Un simile passaggio, dopo aver risolto quello dell’esatta portata delle trasformazioni organizzative sottostanti, sarà il vero tema centrale del dibattito sul “lavoro agile” (un tema del quale – ad eccezione dei giuslavoristi – non sembrano molto occuparsi né i guru dello SW, né le parti sociali né, tantomeno, gli stessi lavoratori).
Non affrontare questo aspetto implica il rischio di confinare lo SW in una assai riduttiva dimensione (quella delle prassi di conciliazione vita-lavoro) che non consentirà di sfruttare pienamente né le opportunità che il “lavoro agile”, in quanto tale, può offrire, né di portare a compimento la “grande trasformazione” del lavoro che deve accompagnare quella dei sistemi produttivi per disegnare un quadro coerente e sinergico che metta insieme tecnologia, organizzazione e lavoro nello scenario “4.0” anch’esso tanto decantato, ma (come l’autentico SW) sin qui ancora ben poco diffuso e realizzato.
Giovanni Scansani
co-founder VALORE WELFARE Srl e docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano