Sanità. Esperienze e implicazioni della pandemia

Alla tavola rotonda hanno partecipato: Alberto Ricci (moderatore), Ferruccio Bonino, Antonio Monteleone, Caterina Podella Turano, Lorenzo Terranova.

La drammatica esperienza del COVID-19 ha portato molti a domandarsi cosa possiamo imparare dalla pandemia per migliorare, almeno un poco, il nostro convivere. L’epidemia senza dubbio ha messo in luce molti punti di debolezza della nostra società e tale consapevolezza offre un’occasione per superarli. Ciò riguarda a maggior ragione il settore in assoluto più coinvolto nell’epidemia, quello della salute.

Con questo obiettivo, il 16 maggio 2020 alcuni professionisti di settore si sono seduti attorno al tavolo virtuale della Fondazione Marco Vigorelli per il webinar “Sanità: esperienze e implicazioni della pandemia”. Si sono confrontati: Ferruccio Bonino (Ordinario di Gastroenterologia in Pensione, Università di Pisa e Ricercatore Senior Associato dell’Istituto di Biostrutture e BioImmagini del CNR), Antonio Monteleone (AGeSPI Lombardia), Caterina Podella Turano (FMH in Neurologia), Lorenzo Terranova (Direttore Area Rapporti istituzionali, Confindustria Dispositivi Medici), Pietro Vigorelli (medico psicoterapeuta, presidente del Gruppo Anchise). Oltre ai relatori, diversi partecipanti sono intervenuti per contribuire al dibattito. Di seguito una sintesi delle principali riflessioni.

Il primo passaggio per affrontare una crisi è senza dubbio il comprenderne le cause. Perché il COVID-19 ha colpito così duramente?

Nel nostro Paese, le debolezze vengono da lontano. È ormai evidente che il SSN è sotto-finanziato rispetto a tutti i grandi Paesi europei occidentali: servirebbero 12 miliardi per portare l’incidenza sul PIL dall’attuale 6,8% ai livelli di GB e Francia che si collocano tra il 7,5% e l’8%[1]. A causa delle assunzioni insufficienti a controbilanciare i pensionamenti, l’età media del personale è oltre i 50 anni. Allo stesso tempo, l’Italia è il Paese più anziano d’Europa (23% di over 65), con una struttura familiare ben più frammentata e debole rispetto al passato: la non autosufficienza, oggi, è la seconda più rilevante causa di impoverimento. Una divaricazione sempre maggiore tra bisogni sanitari e sociosanitari in aumento e risorse stabili o in diminuzione. A questo proposito, è sicuramente positiva l’apertura della Commissione europea nei confronti di un sostanzioso fondo sanitario per il rafforzamento dei sistemi più deboli. L’emergenza sanitaria, forse, può aiutare le istituzioni europee a riscoprire l’importanza e anche l’utilità pratica dei valori di solidarietà che le fondano.

Arriviamo così all’epidemia. Tutti i Paesi occidentali si sono trovati di fronte a un’emergenza sicuramente inedita nelle sue proporzioni. Tuttavia, sono emerse molte criticità di fondo e sono stati commessi alcuni errori strategici. Le istituzioni internazionali, nonostante i precedenti della SARS e della MERS, hanno compreso la gravità dell’epidemia con molto ritardo: basti ricordare che l’OMS ha dichiarato la pandemia l’11 Marzo[2], a lockdown italiano già scattato. La reazione italiana è stata discretamente veloce sul lato curativo, vale a dire sul potenziamento dell’offerta ospedaliera. Al contrario, sono emerse alcune debolezze dei servizi territoriali, con il pronto soccorso che troppo a lungo, in molti ambiti, è rimasto il principale riferimento e filtro per i pazienti. Al contrario, il sistema delle residenze socio-sanitarie è stato inteso, quantomeno nelle prime fasi dell’emergenza, come ancillare rispetto all’ospedale: un setting di cura utile per diminuire la pressione sui nosocomi più che come un ambiente a particolare rischio.

In termini di mortalità, registrata dall’ISTAT nel mese di marzo[3], l’epidemia ha evidentemente impattato in maniera molto diversa su regioni vicine e simili per profilo socio-economico. Questo pone degli interrogativi sull’efficacia del regionalismo sanitario in momenti di emergenza. Si tratta di una questione legittima ma che deve considerare i dati nella loro interezza. I dati delle grandi regioni “nascondono” profonde differenze tra province e territori: quanto incidono i fattori locali nella diffusione dell’epidemia e nelle capacità di risposta? Quali sono le effettive capacità del centro nazionale di governare direttamente un’emergenza complessa che investe molti territori eterogenei? Probabilmente, più che esprimersi sul regionalismo sanitario in generale, è necessario chiedersi quali competenze devono essere eventualmente riallocate e come riuscire a far circolare le migliori pratiche maturate a livello locale.

Un’altra riflessione collegata alla risposta all’epidemia riguarda la disponibilità ampia di dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari e anche per la cittadinanza, quantomeno nelle aree più colpite. La teoria e la prassi di politica economica hanno spesso individuato settori particolarmente strategici per l’interesse e la sicurezza nazionale (difesa, approvvigionamenti energetici, telecomunicazioni, trasporti). In questi settori, lo stato centrale italiano e non solo ha conservato una presenza rilevante, in termini di dettaglio normativo e regolativo, ma anche di proprietà delle infrastrutture e di una componente più o meno ampia della capacità produttiva. Alla luce del COVID-19, appare ragionevole riproporre la stessa logica anche alle forniture del settore sanitario. Si affaccia poi un tema con forte connotazione etica: cosa può e deve accadere quando una nazione vorrebbe dotarsi di strumenti di prevenzione e contrasto, dai vaccini ai dispositivi medici di prevenzione e cura, ma questi non hanno un costo sostenibile per il Paese in questione? Su questo tema, sarebbe utile maturare una sensibilità condivisa tra stati, organizzazioni sovranazionali e internazionali e imprese produttrici, nella consapevolezza che arginare i focolai epidemici quanto prima è a spesso beneficio di tutti. Anche in questo ambito, l’Unione Europea potrebbe ritrovare un ruolo e un’efficacia molto superiore ai singoli Paesi.

Quali possono essere i passi necessari in vista dei prossimi mesi, e di temute “seconde ondate” epidemiche? È strategico puntare su tutte le misure di prevenzione possibili, dalle vaccinazioni anti-influenzali da rendere disponibili al maggior numero possibile di soggetti, all’attivazione dei protocolli di gestione del rischio clinico di maggior successo, con sistemi informativi potenziati in grado di connettere efficacemente i professionisti sanitari fisicamente distanti tra loro. Un ulteriore tema è quello delle competenze necessarie a gestire la fase 2. Innanzitutto, nei tavoli tecnici dovrebbero trovare spazio professionalità esperte nella prevenzione e nella gestione del rischio epidemico negli ambienti produttivi e di socialità. Questo potrebbe aiutare a ristabilire un’alleanza tra attività economica e tutela della salute, partendo da soluzioni di monitoraggio dello stato di salute che si basino su test diagnostici semplici abbinati a rigorosi controlli sui sintomi. Un altro elemento – non nuovo sul piano teorico – è la costruzione di modelli sanitari che concilino logiche cliniche e strumenti di management sanitario. Le attività di prevenzione e presa in carico proattiva e precoce dovrebbero adottare forme di responsabilizzazione sui risultati clinici e di remunerazione per processo. Ciò per superare la logica prestazionale della sanità, basata sul pagamento delle tariffe dei singoli trattamenti. Quest’ultima non è economica ma solo economicistica: quantifica il valore monetario di un servizio, ma in ultima analisi non riesce a valutarne l’impatto sui bisogni, né dunque l’efficacia (cfr. Borgonovi, 2005[4]). È evidente che il modello prestazionale sia molto sbilanciato sul versante della cura, mentre prevenzione, proattività delle cure e diagnosi precoce si abbinano molto meglio alla logica per processo.

Tuttavia, neanche le competenze cliniche, tecniche e gestionali ben integrate tra loro sono sufficienti per riorientare al meglio il sistema sanitario. La crisi ha messo in evidenza come le condizioni di fragilità possano essere diffuse non solo tra i pazienti più anziani, pluri-patologici o socialmente isolati, ma riguardino anche gli operatori e le loro famiglie, esposti al contagio e ad alti livelli di stress. Il malessere degli operatori, però, si riflette velocemente sugli stessi pazienti, innescando circoli viziosi. Da qui l’importanza della tutela della salute, anche psicologica, nelle strutture sanitarie in particolare e nei luoghi di lavoro in generale.

I molti spunti emersi dal webinar probabilmente hanno un unico filo conduttore che conviene di tanto in tanto ripetersi, sia singolarmente che collettivamente: i saperi più avanzati e specializzati devono continuare a dialogare fra di loro, e mantenere un forte orientamento alla persona vista sempre come “fine” di ogni riflettere e agire.

Alberto Ricci   Cergas – SDA Bocconi

Note

[1] Rapporto OASI 2019, cap. 1.

[2] Ministero della Salute, L’Organizzazione mondiale della sanità dichiara il coronavirus pandemia, 11 marzo 2020.

[3] ISTAT, Impatto dell’epidemia covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente primo trimestre 2020, 4 maggio 2020.

[4] Borgonovi E. (2005), Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche. Egea, Milano.

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