«In certa misura, possiamo dire che la discontinuità è (può essere?) anche culturale. Complice la crisi, il paradigma dell‟individualismo mostra la corda, e ciò può avere importanti implicazioni sul welfare» (Manghi, 2012). «Le relazioni sociali dimostrano di essere una “riserva di valore” in termini di socialità e solidarietà, prima ancora che di risparmio/vantaggio economico. Le relazioni sociali si rivelano una precondizione per costruire nuove forme istituzionalizzate di aggregazione della domanda sociale e per ricomporre il sistema plurale di offerta dentro a un welfare comunitario e territoriale» (Magatti 2011).
Lo scorso 3 maggio si è svolta presso la sede della Fondazione Roma la conferenza dal titolo «Un modello italiano per il welfare. L’orizzonte dei beni di comunità». Nel corso della conferenza sono stati presentati gli esiti del progetto «Welfare 2020. Il futuro dei sistemi di protezione sociale nel nostro Paese», nato da una collaborazione biennale tra la Fondazione Roma e il Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change (ARC) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la cui finalità è l’individuazione di un modello teorico e pratico in grado di riformulare il sistema di welfare attraverso la valorizzazione dei corpi intermedi della società.
Proponiamo di seguito un brano tratto dal summary dell’evento.
Una via di uscita dall’individualismo?
In certa misura, possiamo dire che la discontinuità è (può essere?) anche culturale. Complice la crisi, il paradigma dell‟individualismo mostra la corda, e ciò può avere importanti implicazioni sul welfare (Manghi, 2012).
Le relazioni sociali dimostrano di essere una “riserva di valore” in termini di socialità e solidarietà, prima ancora che di risparmio/vantaggio economico. Le relazioni sociali si rivelano una precondizione per costruire nuove forme istituzionalizzate di aggregazione della domanda sociale e per ricomporre il sistema plurale di offerta dentro a un welfare comunitario e territoriale (Magatti 2011).
Lo sviluppo del “secondo welfare” può dunque essere ricondotto a mere ragioni di contabilità economica, ritenendo che esso possa offrire risparmio, efficienza al sistema di protezione. In questo caso rimaniamo nella logica prevalentemente economica del welfare mix.
Oppure può essere ricondotto alla necessità di ripensare profondamente finalità e funzionamento del sistema di welfare. In questo caso la radicalizzazione del welfare plurale societario porta con sé una domanda di maggiore autonomia per i diversi attori sociali nel quadro di una piena e sostanziale sussidiarietà orizzontale. La sfida che si pone è dunque definire i margini di questa autonomia che secondo alcuni autori deve essere completa (Donati 2011, Zamagni 2011). In questo senso, quando Zamagni parla di “welfare civile”, richiama l‟esigenza di una innovazione altrettanto radicale della regolazione di un sistema di welfare plurale che è insieme pubblico, privato e civile, una innovazione che riguarda sia la dimensione economico-finanziaria che legislativa. Se vale questa opzione, si scopre che le forme di finanziamento “privato” del welfare non implicano necessariamente individualizzazione e mercatizzazione; esse promuovono la socializzazione dei rischi e la sostenibilità sociale delle risposte insieme a una nuova visione delle responsabilità collettive rispetto alla produzione del benessere.
Il problema della mancanza di universalismo rimane da affrontare: dal particolare all’universale
Valorizzare le appartenenze comuni per attuare risposte condivise rinsalda i legami di reciprocità e solidarietà tra i membri, ma può disegnare nuove forme di esclusione. La natura particolaristica delle forme organizzate di finanziamento privato del welfare è connaturata al loro essere espressione di interessi specifici, frutto del protagonismo di alcuni attori (imprese, sindacati, fondazioni, comunità locali, associazioni, ecc.). Lo abbiamo visto prima. Ma partire dai territori, dalle comunità di appartenenza, dai legami sociali può essere la via per creare un “valore condiviso” che ricade sulla comunità più ampia in termini di coesione, solidarietà, bene comune, non ultimo di vantaggio economico (Magatti 2012).
Fuori da una logica meramente economica, nella consapevolezza della natura integrativa e complementare del loro apporto all‟interno del sistema di welfare, le forme organizzate di finanziamento privato rivelano un potenziale innovativo da continuare a indagare e sostenere. Forse la “radicalizzazione” del welfare plurale societario non implica grandi discontinuità con il passato, perché non comporta un vero cambiamento di paradigma, solo la sua piena realizzazione. Tuttavia, impone di considerare con maggiore attenzione le conseguenze che ne discendono. La prima, come detto, riguarda l‟attuazione della sussidiarietà orizzontale, la seconda, la possibilità di assicurare ai cittadini la parità di diritti pur dentro un sistema differenziato. In gioco peraltro c‟è un cambiamento della visione, dell‟immaginario del welfare. E come insegna Castoriadis (1995), l‟immaginario sociale costruisce realtà.
Quattro piste di riflessione
Date queste premesse, due dimensioni diventano particolarmente rilevanti da osservare: la dimensione territoriale e la dimensione dell‟agency, ovvero quali attori, a quali livelli, in quali contesti e con quali responsabilità possono fungere da protagonisti?
Proponiamo al riguardo quattro piste di riflessione:
- la centralità dei sistemi regionali di welfare e il ruolo dell‟attore pubblico nella governance del welfare plurale: l‟esperienza del Lazio (Sez. II)
- il protagonismo attuale e potenziale dell‟impresa sociale, nel nuovo scenario del welfare (Sez. III),
- quattro studi di caso (Sez. IV)
- (conclusioni) la capacità “generativa” di esperienze innovative di welfare (Sez. V)
Leggi il summary dell’evento.



