L’arte di inventare soluzioni

Sistemi non umani a servizio degli esseri umani

Francesco Calimeri e Giovambattista Ianni fanno parte di un gruppo di ricerca del Dipartimento di Matematica e Informatica (DeMaCS) dell’Università della Calabria. Un gruppo tra i primi a livello internazionale, nato circa quindici anni fa grazie a Nicola Leone, ordinario di Informatica, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti nell’ambito dell’intelligenza artificiale e della programmazione logica: più nello specifico della logica computazionale. Il gruppo è costituito da professori e ricercatori stabili su cui si innestano profili di studenti e dottorandi formati attraverso un corso di Informatica specifico su questi temi.

FMV ha chiesto a Calimeri e Ianni di raccontare il lavoro che il loro dipartimento porta avanti all’interno delle sfide odierne dell’intelligenza artificiale. Di seguito riportiamo l’intervista.

***

Intelligenza artificiale e programmazione logica: di cosa stiamo parlando?

FC: L’intelligenza artificiale è una branca dell’informatica; l’informatica è sicuramente una scienza, ma è, di fatto, anche un’arte: potremmo forse definirla come l’arte (praticata da esseri umani) di inventare soluzioni che sono messe in atto da sistemi non umani, al servizio degli esseri umani. Una curiosità: le aree del cervello attive durante le attività svolte da un essere umano che mette a punto, che inventa una soluzione sono le stesse interessate dallo svolgimento di attività considerate puramente artistiche, come la danza, la composizione musicale, la pittura, e, più in generale, un processo creativo. Nota che tutte queste attività richiedono sempre di padroneggiare una “tecnica”…

GI: Nello specifico, ci occupiamo di linguaggi “dichiarativi”: mentre comunemente l’informatico programma il calcolatore, codificando per filo e per segno come il calcolatore deve risolvere un certo problema, noi studiamo strumenti dove è sufficiente formulare cosa si desidera (metodo dichiarativo). La sfida è avere un calcolatore a cui dire solo cosa fare, perché sa già fare tutto il resto: quindi dare direttive ad alto livello.

 

Che posto occupano le relazioni nel mondo dell’intelligenza artificiale?

FC: Chiariamo due cose.

Primo punto. Quando si parla di informatica e di intelligenza artificiale non dobbiamo pensare subito al computer. Il computer è un accidente, uno strumento. Non c’era, una volta, e in futuro avremo “scatole” diverse da quelle che abbiamo oggi. Chi si occupa di queste cose a livello scientifico non si preoccupa necessariamente del calcolatore; almeno, non in prima istanza.

Secondo punto. Non dobbiamo commettere l’errore, piuttosto comune, in verità, di personalizzare o antropomorfizzare gli strumenti.

 

Quindi non è vero che i robot ci stanno rubando il lavoro?

FC: I robot non ci stanno “rubando” nulla. Una volta si lavorava la terra a mani nude, poi sono arrivati gli aratri. Spesso commettiamo l’errore di guardare alle cose solo da punti di vista particolaristici: di fatto la tecnologia ha sempre distrutto posti di lavoro, e competenze che erano utili un tempo sono diventate inutili in seguito. L’esempio dell’aratro è chiaramente una provocazione, ma se ne possono fare altri mille. Prova ad immaginare, nel lontano passato, una tribù che comprende uomini specializzati nella caccia a mani nude o con armi che richiedono un contatto ravvicinato con la preda; poi, immagina un’altra tribù, i cui membri hanno inventato armi da lancio, che consentono di attaccare a distanza… quanti membri della prima tribù rimangono feriti o uccisi, rispetto alla seconda? E quanto cibo riesce, la seconda, a procurarsi più della prima? In fondo, se vuoi, la storia ci insegna che la prima tribù ha due strade: soccombere, o imparare ad usare le nuove armi. Ah, chiedo scusa ai vegani per questa seconda provocazione…

 

Perché abbiamo così paura, allora, della Quarta rivoluzione industriale?

FC: Nella storia dell’umanità tante competenze e professioni sono scomparse nel tempo perché la tecnologia le ha soppiantate, ma ha creato anche la necessità di nuove competenze. Il disastro della rivoluzione industriale in atto è che la velocità con cui queste competenze e professionalità si creano e si distruggono è molto elevata. Quando sono arrivate le automobili, per esempio, chi guidava le carrozze non ha dovuto cambiare veicolo nel giro di due anni, ma c’è stata una fase di transizione relativamente lunga. Oggi è tutto più rapido: ed è questo, il problema, più che la tecnologia che ci ruba il lavoro, dato che, come detto, non è una novità. Il fatto è che siamo noi poco reattivi, come singoli e, purtroppo, anche come società.

GI: Ho studiato situazioni specifiche in cui l’avvento dell’innovazione ha tolto lavoro alle persone. Mi sono chiesto, ad esempio, cosa sia successo quando hanno abolito le centraliniste. I centralini meccanici erano operativi già nel 1910-1915, ma le centraliste manuali hanno continuato ad esistere fino ad oltre gli anni Settanta; così come è passato tanto tempo prima che la gente comprendesse il reale funzionamento del telefono a pulsanti e della cornetta rotativa, che pure ha coinciso con la scomparsa del centralino. Che significa questo? Che di situazioni del genere continueremo a vederne tante. Un sacco di profili professionali spariranno per lasciare il posto ad altri, generalmente più specialistici.

 

Alla luce di questo panorama, quali difficoltà maggiori incontrate nel vostro lavoro?

FC: Innanzitutto dover far fronte alla velocità con cui avvengono i cambiamenti, di cui parlavo prima, e poi le competenze da acquisire per restare al passo. Chi un tempo guidava la carrozza non ha impiegato tanto tempo per imparare a guidare una macchina, oggi una centralinista ha bisogno praticamente di una laurea per imparare a “trainare” un’intelligenza artificiale… L’Italia è, tra i paesi OCSE, agli ultimi posti per numero di lauree e, in particolare, per numero di lauree di tipo tecnico/scientifico. E soffriamo la divisione (forzata!) tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico, che è quasi una iattura. Quante persone, in Italia, sono consapevoli di questo mentre sono in piazza a protestare per non aver lavoro? Chiaramente è più complicato di così, ma non tener conto di queste evidenze è un errore. Ed è anche un problema politico che la nostra classe dirigente non è stata, finora, in grado di affrontare, e in cui, per ovvi motivi, non voglio entrare. Ma molto spesso certi problemi non sono politici in senso stretto, quanto piuttosto pratici, e senza le capacità e le competenze necessarie per comprenderli non si hanno, ovviamente, gli strumenti per affrontarli.

GI: Ad esempio, non si riesce a divulgare ai non addetti ai lavori un modo nuovo di fare le cose che già arriva una generazione successiva di innovazioni. Per fare un esempio, posta elettronica certificata e allegati via email sono già superati, e fra qualche anno lo saranno anche i documenti condivisi.

 

Le sfide principali con cui vi confrontate quotidianamente?

FC & GI: La prima sfida è quella per acquisire la consapevolezza della situazione in cui viviamo. La seconda sfida è quella di spiegare che la competenza più importante da raggiungere è quella di saper imparare. La terza sfida è quella per cui certe competenze devono diventare appannaggio di tutti.

Facciamo un esempio, all’apparenza meno informatico. La statistica è una disciplina incredibilmente importante per capire come funziona il mondo, dal punto di vista fisico, economico, sociale. Ma la statistica è contro-intuitiva, per noi, dato che il nostro cervello non si è evoluto per ragionare in termini statistici. Se certe cose non si apprendono da piccoli, diventa quasi impossibile recuperare da adulti. Solo che alcune di queste competenze sono indispensabili per comprendere il mondo. Che è come vederlo, ma non capirlo; e, in certi casi, non accorgersi nemmeno di non capirlo…

 

Cos’è questo sistema DLV che vi ha resi famosi in tutto il mondo?

FC & GI: DLV è un sistema che consente di codificare un problema in termini dichiarativi, di sottoporre questo problema a un sistema di risoluzione, e ottenerne le possibili soluzioni. Facciamo un esempio. Una delle applicazioni che abbiamo sviluppato riguarda il Porto di Gioia Tauro. Il problema era quello di calcolare automaticamente i turni di lavoro del personale (ndr. contratti diversi, numero di ore, distanza tra i turni, vincoli…); serviva un sistema in grado di generare i turni, rispettando una certa quantità di vincoli e di preferenze. L’abbiamo creato con la nostra tecnologia, che ci ha fatto risparmiare un sacco di tempo. Come? Codificando le regole del problema, in forma dichiarativa, e i requisiti che deve avere un orario. Il sistema, dopo aver inserito regole e requisiti, con un semplice clic genera delle proposte di orario, che puoi decidere se modificare o no.

 

Qual è il vantaggio di un sistema di questo tipo?

FC & GI: Mentre con il sistema induttivo non sai “perché” viene presa una decisione, con il sistema deduttivo puoi stabilire delle regole a monte che ti consentano di avere molte informazioni in più alla fine. Ovviamente, come in tutte le cose, ci sono vantaggi e svantaggi in entrambi gli approcci, e al momento sono allo studio metodi per integrare le due cose. Vedremo cosa succederà nei prossimi anni; al momento, l’approccio induttivo è quello che attira investimenti maggiori. Questo non significa che noi lavoriamo con risorse pari a zero, ma che siamo rimasti un po’ nella nicchia, rispetto per esempio agli anni Ottanta e Novanta in cui ci fu un boom della logica deduttiva. Oggi i limiti della cosiddetta logica computazionale sono emersi e non li abbiamo ancora superati.

 

A cosa state lavorando in questo momento?

GI: Io, purtroppo, al momento, non mi occupo di ricerca quanto vorrei, perché ricopro alcuni ruoli istituzionali all’interno della mia Università. Riesco però anche a fare un po’ di ricerca: in particolare, mi sto avvicinando al mondo dei videogiochi, che è una bellissima palestra in cui affinare le tecniche di intelligenza artificiale.

FC: Personalmente mi sto occupando dell’ottimizzazione dei sistemi dichiarativi: sia dal punto di vista dell’espansione dei linguaggi supportati, che in ottica di miglioramento delle prestazioni, nonché dell’utilizzo in contesti di sistemi meno convenzionali (per esempio sistemi mobili, smart city, big data). Come Dipartimento ci occupiamo sia di ricerca di base che di ricerca applicata, in pratica sia di teoremi – che ti permettano di aggiungere qualcosa di nuovo al linguaggio; ricerca “di base”, difficile da finanziare, dato che è un po’ come scoprire teoremi matematici che forse verranno usati fra 200 anni – che di ricerca applicata – con cui si possono recuperare risorse più rilevanti (per esempio per spin-off e brevetti). E, sempre come Dipartimento, facciamo formazione, terza missione, engagement con il territorio, divulgazione e… ogni tanto dormiamo, la domenica sera, anche se non sempre. Infatti non giochiamo più nemmeno a calcetto…

 

Quanto di umano c’è nell’intelligenza artificiale?

FC: L’intelligenza artificiale ha un punto di inizio, umano, e un punto di arrivo, che è sempre umano. Oggi si studiano approfonditamente le interfacce uomo-macchina, cioè modi migliori di interazione con gli strumenti, più o meno intelligenti, che costruiamo. Ciò che è interessante, forse, è anche chiedersi quanto l’intelligenza sia una prerogativa esclusivamente umana. Alcune cose non sono appannaggio dell’umanità in quanto tale: l’umanità le possiede in quanto umanità, ma averle non significa necessariamente essere umani. Tradotto: non sono definitorie dell’essere umano. L’intelligenza, per esempio, non è esclusiva umana; l’essere umano è intelligente, ma non tutto ciò che è intelligente è umano.

Un tempo, per fare l’operaio in una fabbrica serviva una formazione di un certo tipo; per fare l’operaio del III millennio (che non necessariamente si vedrà assegnato lavori di tipo manuale) servirà la laurea, o una formazione specialistica avanzata. Di fatto, è già così. Ma se noi continueremo a produrre operai per la fabbrica di una volta ci scontreremo con una situazione difficile da gestire. Sembra così semplice da capire, e allo stesso tempo pare esserci davvero poca consapevolezza del problema, soprattutto in Italia.

GI: Forse sarebbe interessante studiare anche la diffusione temporale dell’innovazione. Ma questa potrebbe essere un’altra intervista…

***

Per maggiori informazioni sul Gruppo di ricerca del DeMaCS, si veda: