Perché si parla tanto di welfare nel contesto sociale attuale
La parola welfare è ormai sulla bocca di tutti. Vi si ricorre pressoché indistintamente, sia parlando a un auditorio dedicato sia quando l’interlocutore è una folla di “non addetti ai lavori”. Più a ragione che a torto, perché il tema del welfare è davvero così trasversale, così declinabile a tutti i livelli. In questo modesto contributo, cercherò di spiegare il welfare a partire dalle leve della crescita, attraverso vari spunti. Scriverò della proporzionalità che vi è tra crescita e welfare; tra società attuale, intesa come società demografica e del lavoro, e l’espansione dei servizi sociali e personali.
Uno dei tanti parametri di cui la crescita tiene conto è senz’altro l’efficienza, e appunto di efficienza parla la proposta di legge presentata nel dicembre del 1958 su iniziativa di alcuni deputati. Mi riferisco all’istituzione dell’orario unico di lavoro per i dipendenti degli istituti previdenziali e assistenziali, degli istituti di credito e degli enti pubblici. Nel periodo del cosiddetto miracolo economico italiano, l’esigenza di spostare i luoghi di lavoro verso più moderni quartieri, necessariamente posti alle periferie delle città, comportò un grave disagio delle masse impiegatizie costrette a trascorrere parecchie ore al giorno nei superaffollati mezzi di trasporto pubblici in ore che, fu presto detto, divennero di punta. L’inutile dispendio di tempo e di energie, poteva essere risolto con una più razionale distribuzione dell’orario di lavoro. Straordinariamente attuali suonano le problematiche addotte da questi parlamentari per convincere della urgente necessità di adozione dell’orario unico: “[…] migliorerebbe il rendimento lavorativo eliminando disagi che logorano la resistenza degli individui e influirebbe decisamente sul miglioramento culturale, sulla formazione tecnica professionale e, inoltre, consoliderebbe l’istituto della famiglia che, proprio per la prolungata assenza dei genitori, è attualmente ridotta alla sola funzione di assolvere le esigenze materiali della vita senza alcuna possibilità di contribuire alla educazione e formazione dei futuri membri della nostra società.” Le finalità sociali espresse in questo documento, fanno dello stesso, una legge 53/2000 ante litteram. Già allora l’Italia parlava la lingua del work-life balance moderno.
Ma la crescita si nutre anche e soprattutto di occupazione: nel consiglio di Lisbona del 2000, in quella che è stata chiamata la Maastricht del lavoro, i paesi dell’Unione Europea si posero l’ambizioso obiettivo di raggiungere nel 2010 un tasso di occupazione del 70% nel complesso e del 60% per le donne. Oggi sappiamo che queste promesse sono state disattese (47,3 % è l’occupazione femminile riferita al primo trimestre del corrente anno secondo i dati ISTAT) eppure, dietro a quelle cifre, come sotto ale ceneri, il tema del welfare arde ancora. Gran parte della letteratura economica è concorde nell’identificare il settore del terziario come l’habitat ideale per una crescita generalizzata dell’occupazione. Non si tratta solamente di teoria. Nei dibattiti che hanno accompagnato la definizione degli obiettivi occupazionali per i paesi dell’Unione, la principale proposta è stata quella di favorire un’ulteriore crescita dei servizi. Il terziario è considerato il settore che più di tutti può creare occupazione in un sistema economico maturo come quello attuale, che non può crescere agli alti tassi del passato, perché la golden age dei primi trent’anni dopo la seconda guerra mondiale è irripetibile. Il motivo sta in quello che tradizionalmente si considera un difetto del terziario, cioè nel fatto che la maggior parte dei settori che lo compongono sono, non soltanto ad alta intensità di lavoro, ma anche a bassa crescita della produttività, per cui basta un aumento anche piccolo delle quantità dei servizi prodotti per generare una domanda di lavoro aggiuntiva, che non viene “bruciata” da un contemporaneo aumento della produttività, come invece avviene nell’industria manifatturiera. Stante le differenze intrinseche ai tanti settori del terziario, quelli che dovrebbero creare nuova occupazione sono essenzialmente i servizi sociali e alla persona, sottratti alla concorrenza internazionale e consumati dalle famiglie, che li acquistano sul mercato se privati o ne fruiscono in quanto cittadini se pubblici. D’altro canto, le nuove famiglie (dai single a quelle in cui entrambi i coniugi lavorano) hanno poco tempo per fare i lavori domestici o di cura e devono quindi ricorrere a servizi esterni. Particolarmente elevata è la domanda di servizi da parte delle coppie formate da due lavoratori poiché alla minore disponibilità di tempo si combina una maggiore disponibilità di reddito. Ovviamente, perché le donne possano lavorare, occorre che dispongano di servizi di cura, per figli e genitori anziani, accessibili per il loro reddito. Il cerchio si chiude, il problema diventa quello del punto in cui intervenire per avviare il circuito virtuoso dell’occupazione, fondato sulla massima esternalizzazione delle attività di servizio per la famiglia. La soluzione è di creare in primo luogo le condizioni economiche ma soprattutto culturali perché si diffondano le famiglie a doppio reddito, offrendo loro i necessari servizi. Nel 1999 lo Chef Strategist di Goldman Sachs inventa una nuova parola: Womenomics, dall’unione di due parole women ed economics. Nel 2006 la rivista the Economist dedica una copertina a questo neologismo. Per il solo fatto di avere più persone che lavorano, il lavoro delle donne fa crescere il Pil, ma non solo. Ogni 100 donne che lavorano si creano 15 nuovi posti di lavoro perché la richiesta di servizi aumenta. Una donna che lavora non potrà più occuparsi a tempo pieno della casa o dei figli, cercherà dei cibi pronti o dei servizi a domicilio, ordinerà via internet la spesa contribuendo a far crescere una serie di servizi alla persona e alimentando un circolo. È chiaro che questo circolo si può mettere in moto se lo Stato offre anche dei servizi sociali, cioè quei servizi che permettono alle donne di conciliare vita lavorativa e vita familiare. E non parliamo solo di asili nido, indispensabili, ma anche di servizi per le persone anziane, storicamente affidate alle cure delle donne di casa. Il lavoro femminile, risolverebbe anche il problema, ormai grave, delle culle vuote. Bisogna sfatare la leggenda per cui le donne che lavorano non fanno figli: in altri paesi (uno su tutti la Francia attraverso il piano Borloo del 2005), si è visto che la sicurezza di un doppio reddito spinge le donne a fare figli, cancellando così la vecchia formula “+ lavoro = – figli” e riscrivendola al femminile: più donne, più crescita, più welfare.
Di solito, la crescita si misura con un segno stenografico della statistica che si chiama Pil, questa grandezza non dà appieno conto del benessere in senso lato. Per comprendere meglio questo passaggio chiamo in causa un economista americano di origine ungheresi: Tibor Scitovsky (1910-2002). Secondo questo autore esistono due categorie di beni di consumo: quelli di comfort e quelli di creatività. I primi danno un piacere immediato, ma che decresce rapidamente con l’utilizzo, per cui è necessario sostituirli frequentemente per mantenere costante il livello di benessere percepito. Appartengono a questa categoria gli oggetti di “moda”, dai gadget elettronici all’abbigliamento: si tratta di beni facili da consumare, il cui uso non richiede un grosso sforzo psicologico. Invece per i beni di creatività (ascolto di musica, visita mostre d’arte, associazionismo per il perseguimento di interessi specifici) nei quali le componenti culturali e relazionali sono fondamentali, la soddisfazione non decresce con l’uso ma aumenta, tuttavia il loro consumo richiede uno sforzo iniziale o costo di attivazione in termini di relazioni e di formazione. Già da tempo al Pil sono stati affiancati altri indicatori, dall’indice di sviluppo umano: human development index, elaborato dalle Nazioni Unite, alla felicità interna lorda, la FIL, in uso in un piccolo regno himalayano , il Bhutan. E in molti istituti statistici, a cominciare dall’Istat, serve un lavoro di costruzione di indicatori più complessi del Pil per valutare il benessere di una nazione. Questi tentativi di superare il Pil come misura dello sviluppo economico e sociale possono avere molti difetti ed essere soggetti a innumerevoli critiche metodologiche. Il loro immenso pregio però è quello di far capire sempre di più che lo strumento di misurazione delle politiche economiche non è neutrale rispetto ai fini. Dopo lo sviluppo economico prorompente del secondo dopoguerra e la diffusione del benessere, le recenti crisi economiche stanno riproponendo domande che sembravano superate: siamo davvero felici dei risultati raggiunti? Su questi interrogativi è chiamato a rispondere anche il mondo delle imprese, nel suo interagire con le parti sociali, per creare non solo beni di comfort, ma pure i già citati beni di creatività. La produzione di questi beni infatti, comporta, per dirla con le parole di Scitovsky, un costo di attivazione: rinunciare, per esempio, a un aumento salariale, per ottenere una flessibilità di orario o per istituire una banca ore. A saper guardare, sono tutte politiche di welfare.
di Filippo Guizzardi
vincitore della III Edizione del Premio Marco Vigorelli