Strumenti da formatore, cuore da leader.
Lorenzo Fariselli, Regional Network Director di Six Seconds Italia, e Direttore EQ Biz, la divisione corporate di Six Seconds Italia. Laureato in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni con Master in Direzione Strategica Aziendale, è co-creatore della linea SEI e Vital Signs, strumenti utilizzati a livello internazionale per la misurazione dei driver della performance personale ed organizzativa.
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Solitamente, in azienda, si pensa al formatore come supporto al leader.
Vero. Ma se ti dicessi anche che chi in azienda è in un ruolo di leadership si dovrebbe dotare di approccio, mindset e strumenti da formatore? È proprio questo che differenzia un bravo manager da un leader.
Facciamo un passo indietro.
Era il 2005, quando seduto in un’aula dell’Università di Padova il mio professore di Formazione ed Empowerment della Persona scelse proprio me per fare una domanda niente male davanti ad un centinaio di miei colleghi: «Ehi tu! sì proprio tu. Qual è l’obiettivo di un formatore?».
Mi piacerebbe raccontarvi di una mia brillante risposta ma, se ben ricordo, oltre a grattarmi la testa non feci molto altro. Non risposi, ma ricorderò sempre quello che disse il prof: «L’obiettivo di un formatore è creare cambiamento».
Da allora mi porto nel cuore le sue parole e nella mia testa il formatore è diventato colui che riesce a far evolvere le persone, ben conscio che per creare cambiamento deve saper maneggiare al meglio i processi di apprendimento propri e delle persone con le quali si relaziona. Nel tempo ho anche capito che il formatore sa benissimo che il processo è il contenuto. Cioè, sa perfettamente che la modalità con cui erogherà il messaggio che vuole trasferire avrà un impatto sull’acquisizione del messaggio stesso. Uno non fa il formatore, uno è formatore. Insomma, è importante che la “persona formatore” sia allineata al “professionista formatore”. Se non c’è tale allineamento la gente se ne accorgerà ed il formatore perderà di efficacia e talvolta anche di credibilità, fallendo così nel suo ruolo.
Se andiamo invece a vedere la definizione di leader troviamo questo: il leader è chi ricopre un ruolo di comando o direzione, inteso come processo d’influenza sui membri del gruppo per il perseguimento degli scopi comuni.
Mi hanno colpito diversi concetti di questa definizione, ma vorrei mettere il focus su uno in particolare: il leader influenza i membri del gruppo. Influenzare il gruppo significa che prima il gruppo era in una posizione A e, grazie al leader, si muove in posizione B. Quindi possiamo tranquillamente dire che il leader crea cambiamento. Il leader ha lo stesso obiettivo del formatore: creare cambiamento. Cosa significa questo? Significa quello che ho scritto nell’incipit dell’articolo: il leader, per esserlo, ha la necessità di avere approccio, mindset e strumenti da formatore.
E allora la domanda è: che cosa deve sapere una persona per creare cambiamento? Per un formatore è molto chiaro: deve in primis lavorare su sé stesso ed inoltre conoscere come apprendono le persone. Purtroppo però, negli anni di lavoro a contatto con persone in ruoli di leadership, mi sono invece accorto che questa consapevolezza non è così presente nei leader. La formazione è spesso vista come un “di cui” sia dagli stessi interessati che dal contesto organizzativo e per me tutto questo è semplicemente inconcepibile!
Mi sono sempre chiesto: come mai tutto questo non è così chiaro a chi ricopre ruoli di leadership? Vi propongo almeno 2 risposte:
- Se essere capo è scomodo, essere leader lo è ancora di più perché implica un processo di trasformazione personale. Come dicevo prima, non si può fingere di essere leader. Leader si è o non lo si è. Questo processo pone la persona in una situazione che è catalogata dal nostro cervello come pericolosa, minacciosa poiché ci butta in maniera prepotente fuori dalla nostra zona di comfort ed il nostro cervello risponde agli stimoli minacciosi in maniera elementare, grezza: attacco-fuga-immobilità. Questa scomodità è una scomodità emotiva e porta tantissimi leader a non accettare intimamente il ruolo. Nell’essere leader è la parte emozionale che fa la differenza e non le “tecniche”. In questo l’azienda deve assolutamente essere parte della soluzione e non del problema. Non è accettabile che solo il 18% degli investimenti vada allo sviluppo delle risorse umane contro il 59% destinato allo sviluppo dei processi operativi, mentre il dato globale degli investimenti per lo sviluppo delle risorse umane è del 40% (fonte Deloitte). È una logica malsana perché taglia un tipo di formazione fondamentale, quello delle soft skills, alimentando così un circolo vizioso che sfocia in un dato allarmante dell’Harvard Medical School: il 96% dei leader sperimenta il burnout. Credo che l’azienda abbia il dovere di dare loro gli strumenti adeguati per svolgere al meglio il proprio ruolo e, nel caso succeda, le persone di sfruttare al meglio le opportunità date dall’azienda stessa.
- Esiste la gerarchia. La gerarchia permette al capo di vedere un risultato attraverso l’esercizio dell’autorità. Tale risultato è molto spesso a breve termine, come ad esempio un’attività svolta, ed il suo raggiungimento viene considerato dal nostro cervello, per come funziona, come soddisfacente. Quindi la gerarchia è, per il leader, un elemento di “comodità”. Chi ricopre ruoli di leadership, in reazione alla scomodità emotiva di cui sopra, ricorre a forme diverse di esercizio dell’autorità per sentirsi “in controllo del ruolo”. Il problema molto concreto di questo processo è però il seguente: e se le persone avessero bisogno di una progettualità più ampia nel tempo, in grado di considerare obiettivi di crescita personale e professionale più a lungo termine? E se in mancanza di tale progettualità le persone si sentissero dei semplici robot? E se le sensibilità fossero cambiate e fossimo in un mondo potenzialmente pieno di opportunità dove il singolo dipendente possa scegliere di cambiare azienda o addirittura di mettersi in proprio perché “sempre meglio che stare con quel capo lì”? E se il modello organizzativo cambiasse, ma l’impegno di arrivare al risultato rimanesse? Oggi, ad esempio, si parla di organizzazioni teal, nuovi sistemi organizzativi di governance nel quale l’’autorità e le decisioni sono distribuiti nell’ambito di diversi gruppi auto-organizzati anziché fissati in una gerarchia di tipo manageriale.
È proprio in questo scenario, cioè quello attuale, che entra in ballo la strategicità dell’Intelligenza Emotiva, cioè quella competenza che ci permette di “essere più intelligenti con le emozioni”. Per essere efficaci in questo nuovo scenario così fluido, occorre infatti essere leader e l’Intelligenza Emotiva ci consente di raggiungere la miglior versione di noi stessi attraverso consapevolezza, gestione e direzione dei nostri comportamenti. Il vero leader è ben conscio che il cambiamento parte dall’interno, parte dal fare amicizia con le nostre emozioni, anche quelle spiacevoli! Quelle cioè che ci potrebbero allontanare da un’intima accettazione del ruolo di leader.
Attraverso un solido presidio della parte emotivo relazionale, il leader emotivamente intelligente riuscirà a valorizzare l’informazione emozionale inserendola nel proprio processo decisionale. L’allenamento dell’Intelligenza Emotiva gli permetterà di agire sulla motivazione intrinseca delle altre persone, uscendo quindi dal concetto di semplice collaboratore, passando
- dal controllo all’autonomia, aumentando ad esempio il numero di domande e riducendo affermazioni, ordini o giudizi;
- dal focus sulle lacune, tipico delle gap analysis, al concetto di padronanza, lavorando cioè sui punti di forza degli altri;
- dal perseguimento di un proprio obiettivo a quello di un obiettivo comune, agendo sul significato (purpose) e sulla creazione di spazi di ascolto utili alla condivisione e alla co-costruzione di tale significato.
Le tre dimensioni appena elencate meriterebbero un approfondimento a parte, ma tutte si incontrano in un concetto chiave: se non si parte dall’Intelligenza Emotiva si rischia di creare sovrastrutture ed insegnare tecniche, puntando quindi sul fare e non sull’essere. Allenare le competenze dell’Intelligenza Emotiva significa invece entrare in un processo di miglioramento continuo della leadership. Emozione+logica è la chiave.
Lorenzo Fariselli
Direttore Six Seconds Italia