Approfondimenti sulle tematiche trattate in L’outsourcing e i nuovi scenari della terziarizzazione. La centralità delle persone nelle aziende di servizi.
In opposizione al pensiero di Vigorelli: una convinta difesa dello shareholder approach
Secondo Friedman le responsabilità – anche quelle sociali – sono individuali.
Quello di impresa è un concetto collettivo ed essa, in quanto tale, non è in grado di agire, e quindi nemmeno di farsi carico di una responsabilità. Chiedendosi cosa comporti la responsabilità sociale d’impresa e per chi, Friedman analizza in primo luogo la categoria del manager, ossia di un dirigente che «non è che un dipendente dei proprietari dell’azienda per cui lavora»[1]. Questo soggetto è tenuto a soddisfare i desideri dei datori di lavoro, si può dire che ha nei loro confronti delle responsabilità: la realizzazione del maggior profitto possibile rispettando le norme giuridiche e sociali del contesto in cui opera. La stessa logica varrebbe per un’impresa con obiettivi di altra natura, ad esempio fini di beneficenza: in questo caso il manager avrebbe la responsabilità nei confronti dei datori di lavoro di rendere determinati servizi. «In ogni caso, il punto è che, nelle sue funzioni di dirigente aziendale, il manager è l’agente degli individui che possiedono l’impresa o che hanno costituito la società benefica, e la sua responsabilità primaria è nei loro confronti»[2].
Si può dunque affermare che se non esiste, da un punto di vista logico, una responsabilità sociale d’impresa, può esistere invece una «responsabilità sociale individuale»[3]. Facendo riferimento all’esempio del manager, Friedman ipotizza che questi possa sentirsi, in quanto individuo autonomo, responsabile nei confronti della famiglia, della Chiesa, di alcuni impegni che ha assunto, etc. e quindi possa «destinare parte del proprio reddito alle cause che ritiene più meritevoli, rifiutarsi di lavorare per talune aziende, perfino dimettersi, ad esempio, per arruolarsi nelle forze armate del proprio Paese»[4]. In questi casi il manager sta agendo in qualità di mandatario e non di agente, spendendo denaro, tempo ed energie proprie, non sottratte al proprio datore di lavoro. Da quanto detto consegue che se un individuo, nella sua veste di direttore d’azienda, ha una responsabilità sociale, egli sta assumendo comportamenti contrari all’interesse del proprio datore di lavoro, ma non solo. Infatti «se i comportamenti che egli adotta in ossequio alla sua responsabilità sociale riducono il reddito degli azionisti dell’impresa, il manager sta spendendo i loro quattrini. Se le sue azioni fanno aumentare il prezzo al consumo, il dirigente sta spendendo i soldi dei consumatori. Se le sue decisioni comportano una riduzione del salario dei dipendenti dell’azienda, egli sta spendendo i soldi dei lavoratori»[5].
Due questioni politiche
«No alla tassazione senza la rappresentazione». Milton Friedman usa questo slogan per riferirsi alla tassazione che il dirigente imporrebbe qualora assumesse, nell’esercizio del suo ruolo, comportamenti in conformità alla responsabilità sociale. Un simile atteggiamento non solo impone una tassa, ma mette il manager nella condizione di decidere quale o quali debbano essere i fini della tassazione. Volendo spiegare meglio il concetto bisogna dire che vengono sollevati due distinti problemi politici: una questione di principio e il problema delle conseguenze dell’azione.
Per quanto riguarda il principio politico può essere così espresso: «l’imposizione di una tassa e la destinazione dei suoi proventi sono una funzione delle autorità di governo»[6] in quanto gli ordinamenti assegnano tali prerogative alle autorità governative per garantire appunto – no taxation without representation – che esse vengano imposte in maniera il più possibile concorde alle preferenze della popolazione. Gli ordinamenti garantiscono inoltre una importante separazione tra la funzione legislativa (riguardo all’imposizione delle tasse e alla decisione dei capitoli di spesa), la funzione esecutiva (di riscossione dei tributi e di amministrazione dei programmi di spesa) e la funzione giudiziaria.
Nel caso del manager adottato come esempio, egli «sarebbe simultaneamente legislatore, amministratore e giurista. A lui toccherebbe decidere chi tassare, per quale importo e a quale fine, e sempre a lui spetterebbe scegliere la destinazione del gettito. In tale funzione egli sarebbe guidato esclusivamente da una generica esortazione proveniente dall’alto a limitare l’inflazione, a migliorare la qualità dell’ambiente, a combattere la povertà e via dicendo»[7].
Queste considerazioni inducono Friedman a pensare che un dirigente che “tassasse” per fini sociali i proprietari, i lavoratori o i consumatori, starebbe svolgendo una funzione tipica da dipendente pubblico, sotto le mentite spoglie di dipendente di un’impresa privata. Se così fosse non sarebbe più lecito per gli azionisti scegliere un manager perché serva i loro interessi ma la selezione dei dirigenti dovrebbe avvenire mediante un procedimento politico «allo scopo di accertare la base imponibile e determinare – per il tramite di un procedimento politico – gli obiettivi da raggiungere»[8]. Quest’ultima idea fa sì che la dottrina della responsabilità sociale non sia dissimile «dall’idea prettamente socialista, secondo la quale il sistema più idoneo per ripartire delle risorse scarse tra tutti i loro possibili utilizzatori sono i meccanismi politici, e non quelli del mercato»[9].