Il limbo dei Neet: “working dead” verso il futuro

I giovani che non studiano e non lavorano: sono davvero degli zombie oppure è possibile curarli?

FMV ha pubblicato qualche tempo fa un’intervista ad Alessandro Rosina incentrata sul Rapporto Giovani, ad oggi la ricerca più estesa degli ultimi dieci anni sull’universo giovanile.

In questo libro, Neet. Giovani che non studiano e non lavorano (Vita e Pensiero, Milano 2015, pp. 116), Rosina si sofferma su una fascia specifica di giovani, quelli che vengono definiti come lo “spettro” che vaga per l’Europa, una sorta di zombie della nostra epoca, che preoccupano, non poco, le istituzioni e che rappresentano uno spreco enorme di potenziale umano.

A definire i Neet – che anziché essere protagonisti di un’Italia che cresce, divengono spettatori di un Paese che fa fatica – il rapporto dell’Istat Noi Italia, che li presenta come quella «popolazione in età 15-29 anni né occupata e né inserita in un percorso di istruzione o formazione».

L’Italia, come sottolinea Rosina, è la maggiore fabbrica di Neet al momento, con i suoi 2 milioni e 400 mila unità. A seguire Spagna, Regno Unito e Francia.

In questi numeri troviamo più donne che uomini, dato che focalizza maggiormente l’attenzione sui temi riguardanti la conciliazione lavoro famiglia, anche se conciliare non è un problema solo per le donne, ma anche per gli uomini. Eppure è un dato di fatto che se le misure di conciliazione sono esigue le donne finiscono per non lavorare!

In realtà la situazione è più complessa. Perché tra i Neet non troviamo solo i giovani che cercano lavoro (più o meno intensamente), ma anche quelli che si muovono tra precarietà e occupazione e soprattutto quelli che ormai hanno anche perso la speranza di trovare un impiego.

Come diminuire, allora, il rischio che un giovane si trasformi in Neet? Rosina ha una “soluzione” ben chiara in merito: il tema centrale dovrebbe essere partire dalla formazione. Bisogna rafforzare la qualità, sia dalla parte della domanda che dalla parte dell’offerta, e migliorare le modalità di questo incontro. È la spesa in istruzione che deve aumentare, perché il panorama attuale ci consegna questi dati: i giovani italiani hanno delle competenze più basse rispetto ai coetanei di altri Paesi; il mercato del lavoro seleziona in base ad effettive capacità e competenze; il sistema produttivo è meno in grado di riconoscerle e usufruirne rispetto al contesto europeo, ma non solo. Ecco perché i Neet si moltiplicano e il Paese cresce di meno. L’errore più grande è quello di non valorizzare il capitale umano, ma anche di averne una dotazione meno ricca rispetto a quella degli altri paesi.

Flessibilità al ribasso, inerzia sulle politiche esistenti, innovazione che manca: l’Italia, culla del Rinascimento, sembra non riuscire a venire fuori da questa crisi. A mancare è il mordente culturale, quello che dovrebbe chiarire l’impossibilità di aprire una porta nuova con una chiave vecchia, perché i giovani di oggi sono diversi dai genitori di ieri e dalla classe dirigente attuale. E se non si tiene conto di questi mutamenti non si comprendono i cosiddetti Millennials, gli under 30, e non li si sostiene adeguatamente.

L’ultimo Rapporto Giovani sottolinea però che qualcosa sta cambiando, e che il panorama futuro sembra non essere, in fondo, così negativo. I giovani stanno diventando più intraprendenti e disposti all’adattamento; consapevoli che spesso un titolo di studio non basta e che nel successo professionale contano l’impegno e le competenze acquisite sul campo; che è fondamentale per trovare lavoro la disponibilità a spostarsi frequentemente all’estero.

In questo panorama risulta centrale il ruolo della famiglia di origine, che non deve sostenere solo in termini strumentali ed emotivi, ma anche economici e culturali.

Va riattivata la fiducia nelle istituzioni e nel sistema sociale e cambiata la “filosofia di gioco”. È come se si dovesse modificare lo schema di attacco, uscire dalla logica difensiva e definire in maniera più accurata la strategia offensiva.

La logica dell’investimento deve prendere il sopravvento: vale la pena investire sui giovani italiani? Pare proprio di sì. Basta definire in questo processo obiettivi chiari e misurabili, sviluppati in un ottica di medio-lungo periodo, non tanto a partire dai singoli, ma in un’ottica di priorità nazionale. Le disponibilità economiche devono realmente essere più concrete e il cambiamento culturale deve investire non tanto i giovani, ma avvenire con i giovani per la crescita del Paese.

Ecco perché, a conclusione delle sue pagine, Rosina definisce quattro grandi macro interventi che l’agenda politica dovrebbe avere ben a cuore per risolvere il problema dei Neet e rilanciare l’economia del Paese: innanzitutto garantire che il percorso educativo venga concluso e consentire l’acquisizione di competenze utili nella vita lavorativa; quindi favorire una presenza attiva nel mercato del lavoro, stimolando e sostenendo l’intraprendenza delle nuove generazioni.

Così, forse, nel 2025 potremmo dire «C’erano una volta i Neet». Rosina conclude con questa speranza le sue pagine, con la predizione futura di una conclusione possibile.

Se si valuteranno attentamente le soluzioni auspicate, potremmo pensare di avere questi risultati fra dieci anni: i Neet non spariranno, ma si ridurranno almeno al di sotto del 15%; il 90% dei ragazzi concluderà la scuola secondaria superiore; le competenze trasmesse nel sistema di istruzione saranno migliorate; e le eccellenze nell’innovazione diventate sistema.

L’ingrediente fondamentale di questa ricetta del cambiamento? Un atteggiamento diverso verso le nuove generazioni, che vanno poste al centro di un nuovo progetto di sviluppo.

Rosina crede nei giovani e in chi oggi è chiamato a formarli e a farli crescere. Il panorama non è poi così negativo. E il problema deve solo acquisire la giusta importanza nell’agenda sociale.

Ce la possiamo fare ad uscire da questo limbo. In fondo un mondo di zombie non serve a nessuno.

 

FMV