Il “Piano” dimenticato

Un’alleanza italiana nel cassetto del Governo

Tutto quello che rimane in un cassetto, e non si butta, prima o poi viene utilizzato. Forse sarà così anche per il Piano Nazionale per la Famiglia, che risale al 7 giugno 2012 e reca come sottotitolo L’alleanza italiana per la famiglia?

Gian Carlo Blangiardo – demografo italiano che non ha bisogno di tante presentazioni – più e più volte in alcuni degli ultimi suoi interventi ha fatto riferimento a questo Piano. I vari bonus bebè e i congedi parentali per i padri sembrano non essere più sufficienti per la tragica situazione demografica che sta affrontando oggi l’Italia e che rende necessario un intervento coordinato su vari aspetti di sofferenza nel nostro Paese.

Da qui nasce l’esigenza di un piano di riforme che risponda a diverse istanze: a quelle delle giovani coppie, a chi ha bisogno di asili nido e congedi parentali, a chi cerca di portare avanti garanzie per le madri lavoratrici e relative alle politiche per la casa, a chi si sofferma sulle misure per il recupero dei Neet e su un welfare (che consiste soprattutto in politiche a sostegno della conciliazione lavoro famiglia) che aiuti le giovani coppie a crescere figli in serenità. Se si parte dall’attenzione al problema demografico, si possono gettare le basi per un cambiamento serio.

Ma cosa c’è di così significativo in questo Piano Nazionale per la Famiglia di qualche anno fa? FMV ha chiesto a Blangiardo di analizzare queste pagine e di rileggere il particolare momento storico del nostro Paese, anche alla luce di quelle misure definite nel 2012, ma che sembrano necessarie ancora oggi. Di seguito riportiamo l’intervista.

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FMV: Difficoltà di fare famiglia e avere dei figli, mancanza di equità fiscale, crescente fragilità delle reti familiari: il Piano Nazionale per la Famiglia del 2012 si concentra su tutto questo.

GCB: Il senso del Piano è l’analisi di una situazione reale, allora abbastanza problematica, che oggi lo è ancora di più: dal 2012 i dati sui nuovi nati sono ulteriormente peggiorati. Siamo di fronte ad un problema serio.

Il piano si interrogava sulle cause e identificatene alcune cercava di suggerire delle possibili azioni che ne attenuassero gli effetti. Una di queste azioni è sicuramente il costo dei figli, che rientra in un discorso più ampio di equità fiscale. L’idea alla francese del quoziente familiare – che non riusciremo mai a realizzare, ma che ci piacerebbe molto – funziona e bisognerebbe pensare a qualcosa che sia simile e cerchi attraverso la leva fiscale di attenuare i costi. Questo era uno dei grandi obiettivi e dei grossi temi del Piano; poi c’erano anche tutti i temi della cura, della conciliazione lavoro famiglia e della cultura.

 

FMV: Tra i principi ispiratori del Piano, il punto 3.9. si concentra sull’impatto della legislazione sulla famiglia. A suo avviso, potrebbe anche essere misurato l’impatto della famiglia sul contesto della società?

GCB: In teoria è possibile. Se il discorso è concepire una norma, avendo in mente l’obiettivo, e poi cercare di capire in che misura l’impatto di questa norma si manifesti, non solo rispetto all’obiettivo e alla società, ma anche rispetto alla famiglia in quanto tale, penso che si possa fare. Ho l’impressione, però, che non sia mai stato fatto. La preoccupazione per la famiglia nella storia, per quello che ricordo io, non è mai stata centrale negli organi di governo, qualunque fosse il governo.

Quando da giovane professore, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, cominciavo a riflettere su questa demografia ancora non drammatica, ma che dava già qualche segnale di squilibrio, c’era tutto un mondo che si muoveva in termini normativi e di cultura dominante nel favorire una visione individuale e non concentrata sulla famiglia. Tutto si faceva per garantire i diritti all’individuo e nel fare questo, qualche volta, si poteva creare qualche problema dal punto di vista della famiglia, che però era l’ultima delle preoccupazioni. Nella logica di allora, la famiglia era destinata a morire…

Per questo è stata abbastanza singolare l’idea del comitato dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia che ha prodotto il Piano. Non tanto per la sua costituzione ed esistenza, quanto per il fatto che fosse un comitato che Giovanardi cercava di far funzionare democraticamente e soprattutto con la partecipazione di tanti che non appartenevano di certo alla sua area politica.

Il presidente era Pierpaolo Donati, e insieme a me c’erano Giovanna Rossi, Luca Antonini, Francesco Tomasone, Francesco Gallo, Roberto Marino e Luciano Malfer. Durante gli incontri generali a Palazzo Chigi partecipavano anche i rappresentanti dei ministeri e dei sindacati, tutte le forze politiche e sociali, l’Anci e le regioni. Nella discussione, la messa a punto delle proposte e la valutazione di quelle che erano le esperienze, avvenivano nel quadro di un interscambio democratico su posizioni molto diverse in ambito politico.

 

FMV: Le priorità del Piano sono priorità di relazioni: minori, disabili, anziani, disagi conclamati nella coppia e rapporto genitori-figli. Il problema della famiglia oggi è un problema del modo di intendere la relazione?

GCB: Io credo che il punto sia questo: in Italia, qualunque cosa fai, da un certo momento un poi, l’idea di dare una mano ai cosiddetti “poverini” è il tema dominante. Basta pensare all’iter degli assegni familiari, che una volta venivano pagati a tutti in una logica che aveva come obiettivo una distribuzione generalizzata a compensazione (parziale) dei costi dei figli. Da un certo momento, l’assegno familiare è diventato assegno alla famiglia, che in realtà era un assegno di povertà: in una logica diversa è diventato cioè un fondo da utilizzare come forma di aiuto ai poveri. Che pur essendo una cosa giusta, è cosa diversa rispetto alla finalità iniziale.

Ancora oggi, tutte le volte che si fa qualcosa bisogna fare in modo, per una questione di consenso, che nella lista ci siano benefici a favore dei più svantaggiati, e quindi ci vanno messe le famiglie solo con caratteristiche di disagio. Non è più una azione di indirizzo verso obiettivi di natura demografica, bensì una scelta esclusivamente politica. Viceversa, a mio avviso, si dovrebbe recuperare il vecchio concetto di assegni familiari. Non c’è dubbio che aiutare i poveri sia doveroso, ma lo è anche aiutare la famiglia in quanto tale. Essendo la famiglia il luogo di produzione e di formazione di quel capitale umano, i figli, che è irrinunciabile per dare un futuro alla nostra società.

Se in Italia nascono solo 460.000 bambini (ndr. la mia attuale previsione per l’intero 2016), questo non dipende dal fatto che i poveri non mettono al mondo dei figli, ma che i figli non li fanno anche coloro che hanno uno stipendio “ragionevole”, che lavorano in due – la famosa classe media che evochiamo spesso – e che spesso si accontentano di essere genitori di un figlio unico. È evidente che quando il modello dominante è un figlio per coppia, il ricambio generazionale non c’è.

 

FMV: Nel nostro Paese sembra ci sia voglia di maternità e paternità, ma anche incapacità di soddisfare questo desiderio. È solo una questione “politica” o anche “culturale”?

GCB: Bisogna credere nelle statistiche fino a un certo punto, i sondaggi ce lo dimostrano… Quando si chiede ai giovani qual è secondo loro la famiglia ideale, il numero medio di figli ideali o desiderati si attesta intorno ai due. In fondo, l’idea dei due bambini, magari il maschietto e la femminuccia, in qualche modo ce l’abbiamo ancora dentro; lo sentiamo certamente meno rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto, ma è ancora presente.

Solo che poi parte la corsa a ostacoli. Vale a dire: per fare i figli in Italia bisogna prima parlare di coppia stabile, e di matrimonio, ma per arrivare a fare quel passo ce ne sono degli altri. C’è, per esempio, tutto un discorso di stabilizzazione, di uscita da casa, di lavoro, di vita indipendente. In un mondo in cui ai giovani piace rimanere figli, con i vantaggi che ne derivano, c’è l’idea di farne di propri, ma questa è appunto solo un’idea. Così l’orologio biologico va avanti, e si arriva ai trent’anni con quell’idea, ma ancora alla ricerca di un lavoro stabile. A trentuno o trentadue il lavoro si trova, anche se non è un granché o quello che avremmo desiderato, ma è pur sempre qualcosa da cui iniziare, meglio ancora se con un fidanzato o una fidanzata accanto. Il primo anno insieme, due anni, e poi si cominciano a fare le vacanze con gli amici: il tutto rimanendo “ragazzoni” in un mondo in cui ti lasciano lo spazio per vivere individualmente. Così lei può andare tranquillamente al cinema con le amiche (ndr. mia mamma non se lo sarebbe mai sognato) e lui a calcetto con gli amici. Cosa succede in tutto ciò? Che in questo mondo un po’ gioioso, si arriva finalmente a trentacinque, trentasei, trentotto anni e si comincia a pensare seriamente di fare un figlio. Solo che scatta l’elemento fisiologico: un conto è provarci a ventuno, un conto è farlo a trentotto – che poi il figlio magari arriva, se arriva, che sei già quarantenne. E la notte non dorme, e domani bisogna lavorare, se ci sono i nonni si sta meglio, se non ci sono siamo nei guai. E dopo un po’ di tempo, appena il bambino si è assestato, e si pensa di essere usciti dall’“incubo”, ci si chiede: “Che facciamo? Ricominciamo con il secondo figlio?”. “Forse anche no… uno ci basta”. Così dal “modello due figli”, che le stesse statistiche ci propinano, qualcosa in realtà cambia.

Qui non si tratta di costringere la gente a fare quello che non vuole fare, ma di recuperare le situazioni nelle quali, invece, ci sarebbe interesse e disponibilità.

 

FMV: Qualcuno pensa a sottolineare che nell’immigrazione possa esserci una piccola soluzione per la crisi demografica in Italia. Qual è il suo pensiero in merito?

GCB: Adesso faccio il polemico. Nel 2008, alcuni miei colleghi hanno scritto un libro, La rivoluzione nella culla. Il declino che non c’è, in cui si sostiene che se la natalità diminuisce non dobbiamo preoccuparci perché tanto ci sono i migranti. Che tradotto significa che il problema demografico non esiste ed è solo da rileggere.

Questa posizione mi sembra abbastanza incosciente: è come mettere la testa sotto la sabbia. I “salvatori” sono arrivati per qualche anno, ma per una considerazione del tutto contingente: la sanatoria delle 700.000 persone che diventano regolari, come nel 2003-2004, e sono poi raggiunte da mogli e mariti. Ecco perché le nascite sono salite a 80.000 nel 2012, però dal 2012 hanno cominciato anche a scendere.

Cosa vuol dire questo? Che il numero medio di figli per donna, che per le straniere era 2,6% nel 2008, oggi è già sceso a 1,93%, quindi ben al di sotto i due figli per donna. Non è che non esiste un problema di supporto alla famiglia solo perché gli stranieri rimettono a posto le cose: gli stranieri hanno gli stessi problemi, forse più, degli italiani. A 1.000 euro a testa, quando ci sono, in una città come Milano voglio vedere come riesci a sopravvivere dovendo mantenere tre figli e senza i nonni a cui affidarli quando sono al lavoro…

Ciò non toglie che l’immigrazione dia comunque un contributo ancora importante sul fronte del capitale umano, perché 72.000 nati in un Paese che ne ha avuti 480.000, ha pure un suo peso, e senza le nascite degli stranieri il bilancio sarebbe indubbiamente ancora più drammatico.

 

FMV: Qualche stima per il futuro, da qui ai prossimi dieci anni: cosa vede Gian Carlo Blangiardo?

GCB: Se non cambia niente, e non mi sembra stia cambiando molto, vedo che la famosa maggioranza silenziosa continuerà a fare il suo mestiere. Cioè andrà avanti facendo ciò che ha sempre fatto: “non ce la faccio”, “non lo faccio”, “non adesso”, “aspettiamo”; e la drammaticità di questo “aspettiamo” non va ovviamente di pari passo con il mantenimento delle stesse condizioni fisiche.

 

FMV: Il valore famiglia è ancora oggi un valore su cui si può costruire? Abbiamo ancora bisogno della famiglia per costruire il futuro?

GCB: Abbiamo alternative? Il punto è che nelle nostre società da sempre – in alcuni casi in maniera esasperata, basta guardare la serie televisiva dei Medici – la famiglia è stata “la” famiglia, nel bene e nel male, cioè il nucleo portante del sistema. Poi abbiamo scoperto i diritti individuali e quindi ciascuno ha pensato bene di “fare di sé”. Ciò non toglie che nel sistema sociale la famiglia rivesta tuttora un ruolo fondamentale, ma questo ruolo è del tutto rivisitato. Soffermiamoci un momento sul welfare, si dice che copra (o dovrebbe coprire) le esigenze “dalla culla alla tomba”, ma alla fine se non hai qualcuno che ti dà una mano quando diventi anziano e se non lo peschi all’interno della famiglia, ti puoi fare aiutare dalle badanti solo finché te lo puoi permettere, e oltretutto non è sempre così qualitativamente garantito.

Siamo in un Paese in cui nel 2060 avremo 1.200.000 persone con più di 95 anni (ndr. io, per esempio, ho una mamma che ne ha 96 e mi rendo conto di una serie di problematiche di vita quotidiana). È chiaro che se hai qualcuno che può dividersi i compiti allora sostieni una popolazione anziana, ma se hai un figlio unico, che magari ha ancora i suoi genitori e anche una moglie pure lei figlia unica, voglio vedere come vai avanti.

La famiglia come struttura portante del sistema è necessario che ci sia, anche al di là di tutte le considerazioni e i valori di tipo cattolico; la società secolarizzata ha comunque bisogno della famiglia. E siccome ne ha bisogno, deve essere in grado di valorizzare questo agente. Se è un agente che funziona per il bene sociale, allora non ostacoliamolo e diamogli una mano a funzionare bene.

Quando prima parlavo del sistema cultura, intendevo che ci sono almeno due modi con cui si può contribuire dal punto di vista culturale. Il primo modo è un ritorno al tema del “riconoscimento” per il lavoro svolto nell’interesse della società. Un riconosimento che non deve arrivare dalle strette di mano o dai certificati che rilasciava Mussolini assegnando le medaglie alle donne fattrici, che oggi farebbero ridere; ma è un riconoscimento per chi accoglie la sfida della famiglia, a volte andando anche controcorrente. Il secondo modo è quello di puntare ad avere un sistema normativo e burocratico che non disfi continuamente quelle poche iniziative di buon senso che si possono attuare; perché il nostro sistema Paese prima di arrivare a rendere possibili alcune iniziative si dà molto da fare per scoraggiarle.

Ecco In Italia queste due cose non succedono molto spesso.

 

FMV: A livello di associazioni intermedie che cosa si può fare per questo Piano Nazionale per la Famiglia rimasto nel cassetto?

GCB: Per esempio ricordare a chi ci governa – e non sto pensando in questo momento solo alla Ministra della Salute – che esiste un lavoro fatto da altri che potrebbe essere reinterpretato. Di fatto l’Osservatorio esiste ancora e una riflessione sulla famiglia che parta del Governo Renzi non guasterebbe, perché la famiglia non è prerogativa politica del centrodestra.

E magari anche portare avanti singole iniziative, a costo quasi nullo, che richiedano un cambiamento delle regole o un’informazione a servizio di un cambiamento culturale.

Ricordiamoci che la famiglia esiste. E ricordarlo a chi di dovere è un impegno al quale non possiamo permetterci di rinunciare.